Ormai da qualche tempo (e temo di averlo scritto già in altre occasioni) sto maturando la convinzione che la costa maremmana rappresenti una sorta di paradiso terrestre per il cabernet franc. Vitigno di origine francese, appartiene al nobile casato delle viti bituriche, famiglia di cui incarna uno degli esponenti dalla personalità più irruente e bizzarra. Evidente nel suo carattere è, infatti, una spiccata nota vegetale – derivante dal ricco patrimonio di pirazine tipico del vitigno – che spesso si traduce in vini dal piglio verde, un poco acerbo e scontroso, soprattutto se prodotti nelle regioni più settentrionali.
Non a caso nella sua stessa culla, il Bordolese, viene vinificato pressoché esclusivamente in uvaggio con i cugini cabernet sauvignon e merlot, formando una triade che dà appunto vita all’universalmente noto “taglio bordolese”. Ebbene, mi pare che la succitata rudezza caratteriale del vitigno esca
brillantemente domata e rifinita, senza risultare mortificata, dai vigneti della Maremma, a partire più o meno da Livorno per scendere giù almeno fino a Piombino e alla Val di Cornia.
Saranno il caldo, il clima mite, la luminosità dei raggi del sole riflessi dal mare; sarà la bravura dei vignaioli che hanno trovato il giusto modo di coltivarlo; sta di fatto che in queste terre il cabernet franc sembra maturare alla perfezione e regalare vini pieni, equilibrati e di estrema finezza, sia che partecipi alla loro composizione insieme ad altre uve, sia che si esprima in assoluta purezza.
Gli esempi, fino a pochi anni fa ancora sporadici, si stanno facendo sempre più numerosi e convincenti. La novità più stimolante, però, è che ora cominciano a spuntare Cabernet Franc di notevole spessore anche in zone più lontane dalla costa toscana. Ne ho incontrato uno particolarmente ben riuscito e interessante al confine tra Lazio e Umbria, in quella parte della Tuscia che si distende tra il Lago di Bolsena e il Tevere.
Qui, a Vaiano, frazione di Castiglione in Teverina (Vt), ha sede e cantina l’azienda di Paolo e Noemia d’Amico. Discendente da una famiglia di armatori lui, brasiliana di origine portoghese ed impegnata nel campo della moda lei, nel 1985 i coniugi d’Amico hanno dato sfogo alla loro comune passione per il vino di qualità in un territorio molto originale, segnato dall’antica attività del complesso vulcanico umbro-laziale e dai calanchi scavati dall’acqua nei suoli di tufo e peperino.
Alcuni dei loro vigneti si trovano nel Lazio, altri in Umbria; tra questi ultimi ve n’è uno a circa 20 minuti da Orvieto, esteso in un unico corpo di 2 ettari a 450 metri s.l.m., nel quale il cabernet franc viene coltivato sul tipico terreno vulcanico con sistema a Guyot e densità di 6350 ceppi/ettaro. Sotto l’accorta direzione di Guillaume Gelly, agronomo ed enologo, da questo appezzamento è nato Atlante 2011, Cabernet Franc in purezza vinificato con 20 giorni di fermentazione seguita da 14 mesi di elevazione in barriques di rovere francese nuove per il 70%.
Vino dalla fitta tonalità rubino violacea, diletta il naso con caldi effluvi di frutti di bosco concentrati, ornati da spezie dolci e da una nota vegetale matura e gentile, quasi un tocco di peperone grigliato che sfuma con eleganza in una sensazione di sigaro e tabacco. Sul palato la generosa nota fruttata è sempre protagonista, completata da una speziatura ricca, da un vago accenno appena tostato e da una tannicità precisamente svolta, minuta, cesellata ma per nulla spenta, sostenuta nel lungo finale dalla fresca acidità e da una vena sapida profonda e raffinata, che dona vitalità e vigore al gusto.
Forse è stata la caldissima annata 2011 a regalarci un vino così deliziosamente maturo, fuso ed appagante; forse è la magia dei terreni vulcanici che riesce sempre ad infondere una sottile sfumatura di grazia ed eleganza: di sicuro Atlante 2011 della cantina d’Amico è un vino di indubbia eccellenza, la cui bontà ci conferma nella speranza che l’Italia (o almeno alcune sue aree) possa presto assurgere a patria indiscussa dei migliori Cabernet Franc al mondo; eventualità – a nostro avviso – tutt’altro che remota.
Marco Magnoli