C’era una volta un barone, Nicolò Jacona della Motta, ed il suo feudo di Mazzaronello nella Sicilia sudorientale, in provincia di Ragusa. Nel suo feudo il barone coltivava anche dei vigneti dai quali ricavava un vino ottenuto, con ogni probabilità, da un vitigno ben radicato nella zona, il frappato.
Nei primi anni Trenta del Novecento il barone passò a “peggior vita”, come avrebbe detto Veronelli, lasciando il frutto dell’ultima vendemmia, quella del 1932, in dieci botti conservate nella sua cantina. Morto senza eredi diretti, sui beni sorsero immediatamente innumerevoli dispute tra i numerosi nipoti sparsi in tutto il mondo. In attesa di un accordo sulla spartizione, che si prevedeva lungo e complicato, si decise di murare la cantina, così che nessuno potesse illecitamente prelevarne il contenuto.
Passarono gli anni; tanti anni; al punto che ci si dimenticò della cantina murata, fino a che, mezzo secolo più tardi, venne riscoperta in seguito a lavori di ristrutturazione e con essa le dieci botti di vino dell’annata 1932. Siamo così giunti al 1985, quando Marida Jacona della Motta, nipote del barone Nicolò, contattò Piermario Meletti Cavallari – per chi non lo sapesse, l’originario artefice della bontà e del successo del Bolgheri Grattamacco – proponendogli l’assaggio dei quel vecchissimo vino.
Meletti Cavallari ne rimase strabiliato e subito lo sottopose al giudizio di Luigi Veronelli, che a sua volta lo definì “mostruoso”. Fu proprio Veronelli ad inventarsi il nome Ora da Re, per sottolinearne l’unicità e l’esclusività, suggerendo l’imbottigliamento del vino contenuto nelle botti 2, 8 e 9, da lui giudicate le più affascinanti. Ecco la storia un poco romanzata di un vino misterioso.
Come tutte la favole che si rispettino, parte da un consistente fondo di verità sul quale si è poi ricamato qualche elemento rocambolesco, che lo stesso Luigi Veronelli si divertì, nei suoi racconti, a farcire con le date e gli avvenimenti più diversi e improbabili, immaginandone una fiaba.
“Il vino è un valore reale che ti dà l’irreale” era, del resto, uno dei motti più cari a Gino, perfetta definizione di quel “materialismo magico” che ha contrassegnato il suo pensiero: partendo dalla realtà, dalla fisicità “organolettica”, il vino è capace di trasportare nell’irrealtà, nella suggestione, nella fantasia, in una dimensione immaginaria, magica, letteraria.
Un passaggio dal reale all’irreale con la conseguenza, paradossale ma scontata, che quell’irreale a cui si giunge finisce inevitabilmente per riflettersi sul reale, arricchendolo di valenze simboliche e culturali sempre, però, mediate dall’esperienza individuale; perché il vino d’eccellenza parla all’individuo e mai alla massa.
Grazie a Cantina dei Feudi, che lo distribuisce, con l’Ora da Re 1932 proveniente dalla seconda botte abbiamo voluto concludere la degustazione organizzata dal Seminario Veronelli nel corso del recente Vinitaly, dedicata a Luigi Veronelli nel decimo anno dalla sua scomparsa ed intitolata Il buono è la forma del vero.
Un vino pieno di anacronismi, che dovrebbe essere ormai decrepito ed invece è ancora vitale, dove
paradossalmente l’elemento che dovrebbe suggerirne la caducità, ovvero l’intensa nota ossidativa, è invece quello che lo rende vivo e dinamico ma anche confortevole e confortante, rinfrescando il tocco dolce e maturo della frutta essiccata e addolcendo i toni più ruvidi e amarognoli del mallo di noce e delle spezie.
È, in fondo, questa l’essenza di un “vino da favola”, la cui straordinarietà non sta solo nelle qualità organolettiche, ma almeno in pari misura anche nel portato di suggestioni, simboli, miti, cultura.
Reale ed irreale, materia e spirito, forma e sostanza sembrano fondersi; il concreto e la suggestione, la realtà e la favola, i fatti e i simboli si riflettono vicendevolmente gli uni negli altri.
Da questo gioco di specchi, attraverso il vino scaturisce quella verità che trova la sua forma nel buono.
Marco Magnoli