“San Lorenzo, io lo so perché tanto / di stelle per l’aria tranquilla / arde e cade, perché si gran pianto / nel concavo cielo sfavilla.” No, no… Non è questa la chiave… Allora il cinema d’impegno, i fratelli Taviani, un film intimo e insieme corale, una tragedia che diviene poesia: “Stanotte è la notte di San Lorenzo, amore mio… e devono cadere le stelle.” No, nemmeno questa è la strada da battere…

Forse la grande pittura, Tiziano Vecellio, il maestoso olio su tela da 493×277 cm conservato nella chiesa dei Gesuiti a Venezia, dove agli ardenti tormenti terreni, ai rilucenti tizzoni del martirio risponde la celeste luce che squarcia il cielo, due opposti poli luminosi tra i quali si distende la fosca e greve materia del mondo. No, non ci siamo ancora… Troppo melodramma; troppo sentimento drammatico; troppo dramma al servizio di filosofia e teologia.

Per cogliere il vero senso di vini come questo, le suggestioni troppo cerebrali o intellettualistiche rischiano di allontanare irrimediabilmente dalla schietta ed obiettiva realtà di un’eccellenza autoevidente. Il vino, ovviamente, è il Langhe Nebbiolo Sorì San Lorenzo 2010, dai più ritenuto l’incontrastato simbolo della cantina di Angelo Gaja in Barbaresco, provincia di Cuneo – ça va sans dire.

Non ci dilungheremo per l’ennesima volta a raccontare le vicende per cui da diversi anni sulla sua etichetta compaia la denominazione “Langhe Nebbiolo” e non più “Barbaresco”; sono ben note, smodatamente dibattute ed hanno creato schieramenti opposti i cui paladini paiono fossilizzati a torto o a ragione nelle loro rispettive posizioni, dalle quali nessuno è disposto a recedere. La realtà, si diceva, in questo caso è evidente e non ha bisogno di metafore o allegorie per essere rivelata.

Ci troviamo al cospetto di uno degli indiscutibili e imprescindibili Grand Cru d’Italia, un vino nel quale vitigni, ambiente, terreno, stile, storia ed umanità del produttore si sono fusi a tal punto e con tale costanza qualitativa annata dopo annata che non è più possibile metterne in discussione l’eccelsa grandezza.

Ha poco senso chiedersi ogni anno se e quanto sarà buono il Sorì San Lorenzo di Gaja; sono ormai certezze offerte da un vino che può permettersi di controbattere con sottile ironia ai propri detrattori – perché sembra una farsa, ma nel variegato enoico mondo, nei suoi più reconditi recessi, nei fumosi gironi di forum, blog, circoli carbonari e quant’altro, anche il Sorì San Lorenzo conta i suoi denigratori, gente che piuttosto di riconoscere il capolavoro dell’eleganza, dell’intensità, della complessità, della classe cristallina preferisce perdersi in banali e stolide accuse di “modernismo”, di “barberica” impurità e via di simili amenità – detrattori in presenza dei quali ci diverte immaginarlo ribattere con la stessa serafica sagacia del suo santo eponimo, quel San Lorenzo che, steso sulla graticola, si fece burla dei suoi carnefici suggerendo: “Guardate se son cotto a sufficienza su questo lato e voltatemi per cuocermi sull’altro”.

Con un campione di tale statura si può discutere su questioni di dettaglio, ma è riduttivo esprimersi in punteggi (per cosa, poi? dare quest’anno un punto in più? il prossimo uno in meno?), descrizioni barocche o estreme “dissezioni” organolettiche, perché gli autentici fuoriclasse si misurano solo sulla forza delle emozioni, spesso ineffabili, che sanno suscitare. “Ma com’è il Sorì San Lorenzo 2010?” – vi chiederete a questo punto.

Quando l’ho bevuto, davanti a me sedeva Fabio Contini, marito dell’Annalisa Rossi Contini che produce deliziosi Dolcetto a Ovada; appena messo il naso nel bicchiere, Fabio ha avuto un sussulto, ha alzato il viso, sul quale spiccavano due enormi occhi sgranati, ed ha espresso la sua ammirazione e la sua delizia con una colorita espressione “ideomatica” siciliana, un’unica, eloquente parola da voi facilmente intuibile. Di fronte a una tanto ermetica quanto epistemica verità, ho risposto con pari concisione: “Concordo”.

Marco Magnoli