“La legittimità del giudizio dipende dal processo mentale attraverso il quale viene raggiunto: dal metodo”. Chiunque sia chiamato a esprimere un giudizio dovrebbe riflettere su queste parole di Giulio Carlo Argan, storico e critico dell’arte (fu anche uomo politico, sindaco di Roma e senatore), tanto più coloro che giudicano per professione…
No, non alludo alla vicenda giudiziaria che sta portando nei quotidiani di tutto il mondo una ventata d’italica comicità, mi riferisco, più modestamente, al mestiere del degustatore e – già più impegnativo – del critico gastronomico. È forse la consapevolezza d’esser chiamati a valutare il frutto di anni di lavoro, il prodotto ultimo di una faticosa vicenda collettiva a porre interrogativi cui difficilmente ci si può sottrarre quando ci si accosta a un vino per giudicarlo.
Trovandomi a scarpinare da bravo turista nella Roma dei papi, del Bernini, del Borromini, di Pietro da Cortona (e di Argan), capita sia proprio un vino laziale ad invitarmi a riflettere: il Clemens Lazio Bianco 2011 dell’azienda agricola Casale Marchese di Frascati (Roma). Dedicato al Cardinal Clemente Micara che di Roma fu a lungo vicario generale, al naso presenta note di pesca bianca, noce di cocco, tabacco, spezie dolci, ma anche burro e una gradevole componente d’agrumi. Bocca calda, consistente e giustamente acida.
Troppo di rado ci si interroga sul metodo impiegato nel formulare una valutazione, tanto meno ci si chiede quale sia la missione di un “assaggiatore che scrive”. Tutt’altro che dettagli inutili: nonostante le note degenerazioni, una critica preparata e seria resta un fattore determinante perché qualunque disciplina possa formulare in modo lucido il proprio discorso, sviluppare idee e percorsi senza implodere o restare in superficie, senza avventurarsi lungo binari morti.
Qual è il compito di una critica gastronomica seria? Potremmo dirlo prendendo a prestito quanto Argan era solito dire a proposito della sua critica d’arte: rendere intellegibili i manufatti, ”proprio perché, non essendo in sé razionali, potevano e dovevano essere razionalizzati per sussistere e valere in una cultura che era fondamentalmente razionale”. Rendere intellegibile un vino o un piatto non significa tanto illustrarne nei dettagli il processo produttivo quanto ribadire la legittimità di un punto di vista estetico su di essi che intercetti la sensazione e le sue risonanze utilizzando parole e concetti (avrete notato come, per una scelta precisa, in questa rubrica non vi sia traccia dei temi psudo-tecnici di moda: la botte grande, la biodinamica, i solfiti, l’autoctono?).
Se è chiaro che un degustatore serio deve necessariamente possedere competenze produttive – il Seminario organizza, anche per questo, convegni di aggiornamento tecnico-scientifico – è tuttavia altrettanto chiaro che il critico debba assaggiare in modo diverso dall’enologo, così da evidenziare quella capacità del vino di mettere in vibrazione il nostro animo, ciò che toglie alcuni manufatti gastronomici dal semplice status di alimento.
“Di un vino, preso in sé e per sé, c’è poco da dire”. Rimasi senza parole sentendo Veronelli pronunciare questa frase durante uno dei tanti viaggi in auto. Mi ci è voluto del tempo, ma credo d’aver capito a cosa alludesse Sua Nasità, come lo soprannominò con affetto Gianni Mura: per comprendere appieno un vino occorre connettere naso e cervello, sensazione e pensiero, conoscenza tecnica e cultura, scienza e magia.
Forse è troppo poco per essere considerato un metodo, ma certo è un buon punto di partenza per continuare a lasciarsi interrogare dai vini.
Andrea Bonini