Le Cinqueterre sono state dichiarate dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità dal 1997. La viticoltura occupa una parte rilevante del Parco e fu introdotta dai vignaioli della Lunigiana che iniziarono a terrazzare questi ripidi costoni con le pietre spaccate dalla roccia. I muri a secco costruiti nel tempo misurano complessivamente 6.729 chilometri e, in alcuni punti, tra la prima e l’ultima terrazza c’è un dislivello superiore a 200 metri.

I terrazzamenti a strapiombo sul mare sono collegati da strette e ripide scale in pietra e solo da pochi decenni le monorotaie facilitano il lavoro dei vignaioli. Il lavoro dell’uomo si è sommato a quello della natura creando un ambiente di straordinaria bellezza e ardita unicità. Anche la sua viticoltura è unica da quando alle varietà albarola e vermentino, coltivate in tante vigne liguri, viene aggiunta la varietà Bosco, un raro vitigno selezionato nel bosco dei Marchesi Durazzo di Genova che conferisce ai vini delle Cinqueterre delle nuance non comuni.

Più difficile e complesso il processo enologico che spesso è passato acriticamente dall’empirismo della tradizione contadina ad una enologia industriale standardizzata e impersonale, ma che nasce anche da un’abitudine contadina caratterizzata dalla segretezza dei processi. Se la viticoltura è sempre stata, per definizione, sotto gli occhi di tutti (per cui tutti i vignaioli possono osservare il lavoro del vicino e quindi confrontarsi con altre esperienze), l’enologia, invece, praticata nel chiuso delle piccole cantine, è stata costantemente tenuta segreta, soffocata dalle gelosie e dai pregiudizi che non le hanno permesso di svilupparsi e confrontarsi con nuove conoscenze e nuove tecniche.

La domanda che ci si può porre ai giorni nostri è quindi la seguente: come possiamo fare diventare remunerativo un vino che ha una viticoltura dai costi spaventosamente elevati con un qualità enologica decisamente modesta?

Una prima risposta se la diedero i liguri stessi inventando lo Sciacchetrà, il vino dolce ottenuto dall’appassimento delle uve che, così concentrate, fornivano una maggior efficienza aromatica e quindi una maggior qualità organolettica che il mercato poteva meglio apprezzare anche da un punto di vista economico. Ma sappiamo che negli ultimi anni anche questo tipo di vino sta subendo una forte contrazione dei consumi e una sostanziale riduzione dei margini economici, per cui l’abbandono di questi patrimoni ambientali rischia di compromettere il suo mantenimento, la sua conservazione e tanto più la sua sostenibilità economica.

Qualcuno ha però provato ad immaginare delle soluzioni a questo problema introducendo quei nuovi concetti enologici che hanno trovato numerosi consensi in Friuli ed in molte altre località italiane. Un ex pallavolista svizzero, Kurt Wachter, assieme a sua moglie Sonja, diedero vita qualche anno fa a Buranco, un’azienda con obiettivi qualitativi moderni ed innovativi che si posero il problema di dare sviluppo ed economia a questo fragile e prezioso territorio. Ora quest’azienda è passata nelle mani della ligure famiglia Grillo mantenendo inalterati gli obiettivi che la caratterizzarono fin dalla nascita.

Il Cinque Terre Magiöa 2011 di Buranco, a Monterosso al Mare in provincia di La Spezia, è un vino ottenuto con le uve fresche ed integre, appena pigiate, di albarola, bosco e vermentino, fermentate a temperatura controllata e lasciate a macerare per più di un mese. Si ottiene così un colore luminoso con sfumature topazio, un profumo che ricorda la nespola giapponese e la cotogna, un gusto intensamente fruttato e floreale con sfumature di miele di acacia e un brioso stacco tannico che allunga e rafforza la persistenza. Forse non sarà facile il suo abbinamento con il cibo, ma la memoria vi porterà immediatamente su una terrazza – fascia, come la chiamano i liguri – a picco sul mare, con la luce del tramonto che farà tutt’uno con il vino.

Gigi Brozzoni