Ma come vorrei avere i tuoi occhi, spalancati sul mondo come carte assorbenti”. La piccola si blocca davanti a me, mi scruta, osserva ogni gesto, poi inforca la sua biciclettina e pedala veloce verso il centro assolato della corte. Torrida domenica di fine luglio; nell’aia il sole picchia i suoi quaranta gradi, ma i bimbi corrono e giocano comunque, rinfrescati dalla pioggerella d’acqua dispensata dal nonno con una canna di gomma. In testa continua a risuonarmi una voce emiliana: “Ma come vorrei avere da guardare ancora tutto come i libri da sfogliare”.

Mi rifugio all’ombra di quel gelso sotto il quale, poche settimane fa, ragionavamo del Moscato di Dogliotti e delle sue confortanti virtù. Ora l’atmosfera è diversa, troppo caldo, niente torte ma solo affettati e Parmigiano giovane; il vino è un Lambrusco di Sorbara Radice 2012, cantina Paltrinieri di Sorbara, provincia di Modena: appena sfumato di corallo, spuma fragrante, aromi di fragola e melagrana, qualche stimolo selvatico, gusto secco e fresco.

Non so se sia il vino a colorire il momento o viceversa. Può darsi sia una suggestione reciproca, la visione velatamente bucolica di un’epoca che pare sfuggire, le inflessioni emiliane di un vino che richiamano una canzone cantata col medesimo accento; e i bambini che continuano a giocare come feci anch’io proprio al centro di questo cortile, quando il gelso era già imponente ma un poco meno maestoso.

Il nonno, a quel tempo, per me era ancora nonno e non padre, e quel “non saprai che sapore ha il sapore dell’uva rubato a un filare” per lui poteva celare una nostalgia più autentica. La malinconia incombe insieme a questa cappa umida che ti appiccica la camicia alla pelle, eppure avverto che, lentamente, l’afa cominci a diradarsi ed il cielo a farsi pulito. Nel mio personalissimo cosmo, infatti, il Lambrusco è genuina schiettezza; il vino della terra, dei suoi cicli e delle sue stagioni, delle generazioni che si incrociano e si intrecciano.

Intanto, tra le grida di mamme e nonne, i bambini si calano dal vecchio fienile dove ancora i miei bisnonni appendevano le pannocchie a seccare; mi rivedo lassù con i cugini più grandi a inventare la discesa più pericolosa e divertente: “Vola, vola tu dove io vorrei volare, verso un mondo dove è ancora tutto da fare e dove è ancora tutto, o quasi tutto, da sbagliare”.

Sono ormai all’ultimo sorso di Lambrusco, l’ultima carezza fruttata di un vino che riesce finalmente a donarmi la dolce consapevolezza di una storia che è essenzialmente un ciclo, una lunga catena di anelli che si saldano ad altri anelli, sempre uguali ma sempre diversi, più nuovi, sfavillanti e lucidi sviluppi delle trame del passato ma in esso, in fondo, saldamente radicati; così come lo è questo sincero e leale Lambrusco di Sorbara, perché – ci ricorda il cantore – “il vivere è sempre quello, ma è storia antica”.

Marco Magnoli