Uno dei piatti migliori che ho avuto la fortuna di assaggiare è il mansaf, preparazione di origine beduina che in Palestina è proposta solo nelle grandi occasioni. Non un mansaf qualunque, quello cucinato da Yusef Nabhan, mio braccio destro durante i quattro anni a Cremisan, azienda vitivinicola nei Territori Palestinesi Occupati.
Lui pure di origini beduine, in una sera d’estate ha invitato me e i colleghi a cena a casa sua per il matrimonio del nipote. Abita così lontano dalla cantina da doversi alzare ogni giorno prima dell’alba per essere puntuale al lavoro; spesso l’ho riaccompagnato a tarda notte in quella valle semideserta nei dintorni di Beit Sahour, a sud di Betlemme.
Quella sera, però, la piccola valle era trafficatissima: un andirivieni di auto più o meno scassate, di famiglie numerose a piedi, decine e decine di persone nei loro vestiti migliori che – secondo i tempi scanditi da una ritualità precisa – portavano i loro auguri agli sposi, ricevendo ciascuno una sedia e un pasto speciale. Arrivammo anche noi, fatti accomodare come ospiti di riguardo nel salotto di casa, privilegiati da una cena con i parenti stretti – i soli uomini – dello sposo, mentre decine di persone erano sistemate all’esterno.
Yusef ci accolse con l’attenzione, la cordialità e il garbo – lui, intelligentissimo ma analfabeta, non avendo potuto studiare – da fare invidia al maître di un ristorante stellato. Era stremato per aver trascorso tre giorni e tre notti a cucinare mansaf nei pentoloni all’aperto, dormendo soltanto poche ore (in Medio Oriente come in Italia ci sono piatti e occasioni – avete presente il nostro barbecue? – per cui gli uomini sentono l’irrefrenabile desiderio di cucinare…).
Seduti su divani verdi, facciamo conoscenza del padre dello sposo che, prima di dare inizio alla cena, ricorda commosso il primogenito, eroe della resistenza palestinese rinchiuso da anni nelle carceri israeliane del Negev. Ma festa sia: arriva un vassoio fumante di mansaf. Cos’è il mansaf? È un piatto composto da più strati: alla base un pane sottile e rotondo, cotto sulla pietra rovente, quindi, sovrapposti, del riso, della carne di kharuf (pecora) lessata e tenerissima, mandorle a scaglie, il tutto condito da una salsa calda a base di yogurt acido diluito. Allungo la mano destra nel grande vassoio al centro della sala, prendo un po’ di riso, un po’ di carne umida, qualche frammento di mandorla e assaggio: è stato quello il momento in cui ho capito di amare il sapore della carne di pecora ingentilita dalla lessatura.
Ieri, in preda alla nostalgia, l’unica carne ovina che mi è riuscito di scovare sono stati degli arrosticini per nulla raccomandabili… Al deludente confronto con il mansaf ha rimediato un vino, incomparabilmente migliore del succo di frutta offertomi allora: il Barbaresco Cottà 2007 dell’Azienda Agricola Sottimano di Neive (Cn). Un vino splendido, un frutto succoso – “perfectly ripe” – rosa appassita, note affumicate e spezie, bocca lunga, saporosa, tannino intenso e levigato.
Un Barbaresco di quelli che mi fa male non poter offrire a Yusef: da buon musulmano – pur gestendo perfettamente, per esempio, un filtro rotativo sottovuoto – in quasi trent’anni di lavoro in cantina non ha mai assaggiato una sola goccia di vino. Mi dispiace davvero per questa parte di bellezza che non posso condividere con lui… il suo mansaf sarebbe ancora migliore “sposato” al Barbaresco Cottà 2007 di Sottimano.
Andrea Bonini