Che i grandi vini nascano per essere bevuti e non per prendere polvere nelle cantine è, fortunatamente, un concetto acquisito. Stappare 76 ore prima del servizio, munirsi di cestello, decanter, candela, tastevin, bicchieri di cristallo e, naturalmente, dell’immancabile arrosto di selvaggina: le denominazioni che in passato hanno puntato su simili “protocolli” per qualificare la propria immagine se ne sono presto pentite e hanno saggiamente invertito la rotta.
Oggi, se mai, corriamo un rischio opposto: è tutt’altro che raro trovarsi ad aprire bottiglie importanti senza averlo minimamente programmato. Trovare una buona ragione per bere un vino di qualità è, fuor di dubbio, sempre possibile, tuttavia è innegabile il fatto che a rendere ancor più piacevole un assaggio contribuisca l’eccezionalità del momento: una data attesa a lungo o un avvenimento improvviso e gradito che ci toglie dal tempo ordinario. In quel caso non è solo la gioia per l’evento ad essere amplificata da un vino prezioso, ma è il vino stesso a caricarsi di un’intensità nuova, quantomeno per l’inconsueta vitalità dei nostri sensi.
Se il vino e la buona cucina possono divenire – lo auguro a tutti – frequentazioni quotidiane, personalmente sono affezionato al concetto (e alla pratica) della festa, un’eredità consegnataci dalla storia. Nel descrivere le abitudini alimentari del passato, del Medioevo in particolare, ci si sofferma spesso sul numero elevato di giorni “di magro”, quando non di totale astinenza dal cibo, previsto dal calendario. Non sempre, tuttavia, si ricorda come tale imposizione abbia dato origine, in ogni città e territorio, a un’ingegnosa cucina insieme penitenziale e gustosa; né si sottolinea il fatto che ai tanti giorni di rinuncia corrispondessero quasi altrettanti giorni di festa, talvolta persino d’abbondanza.
Molto è stato scritto sulla percezione del tempo nei secoli passati, sul perpetuo rincorrersi di Quaresima e Carnevale, sulla simbologia cristiana sovrapposta all’antica ritualità pagana legata ai cicli stagionali, alle connesse attività agricole, alle forze di vita e di morte, alle inquietanti profondità della terra come alle rotazioni degli astri. Se il valore cristiano della cerimonia è da rintracciarsi nelle novità, talvolta minime, introdotte nei riti pagani, la radice materiale, l’importanza concreta del momento – la semina, il raccolto, la nascita di persone e animali, la morte, la macellazione – è rimasta invariata e palese sino alle soglie dell’industrializzazione.
Sconfitti – solo per noi e momentaneamente – l’inverno, la carestia, la pestilenza, affidata la nostra sopravvivenza non più alla grazia (celeste o terrena che fosse) ma all’efficacia economica degli individui e delle organizzazioni, anche la suddivisione e il senso del tempo sono molto cambiati. Nel tempo “di magro” della nostra iper-calorica e palestrata contemporaneità, difendere il tempo della festa e della condivisione è conservare e tramandare un po’ di sana umanità neolitica.
Il Sanpetrolo Vino da Tavola Bianco Dolce 2002 dell’azienda Petrolo in Mercatale Valdarno (Arezzo) è un perfetto “vino da festa”, come del resto lo sono molti vini prodotti dai vigneti di Petrolo, protetti dalla minacciosa Torre di Galatrona e da quella, campanaria, della Pieve di San Giovanni Battista (da vedere il fonte battesimale di Giovanni Della Robbia). Colore ambrato scuro e viscosità di sciroppo, al naso è di festosa intensità e persistenza: frutta secca, datteri e fichi, tamarindo e china, note balsamiche e di erbe aromatiche. In bocca è dolcissimo e succoso, sprigiona aromi di torrefazione, di miele di castagno e liquirizia, ma anche – evidente – l’equilibrio solido e maturo che danno, negli anni, l’alternarsi d’inverno ed estate, la morte fertile del seme e la fioritura, i movimenti degli astri, il rincorrersi del tempo di magro e della festa.
Andrea Bonini