Per quanto generalmente si preferisca fingere di non saperlo, è possibile trovare più d’un elemento in comune tra un grande vino – il suo corredo di etichetta, bottiglia, tappo e capsula, la sua specificità aziendale, viticola, enologica, lo storico delle annate – e il più semplice, più ingenuo dei vini prodotti per l’autoconsumo familiare. Allo stesso modo, benchè diversissimi, qualcosa unisce i vini d’oggi, nati dall’incontro tra competenza tecnico-scientifica e sensibilità, a quelli consumati per millenni sulle tavole domestiche, nelle osterie, nei conventi e nei palazzi signorili.

Piaccia o no, il filo rosso – o bianco, dipende – è la virtù magica che ha questa bevanda di accrescere la nostra conoscenza del mondo, la sua capacità di restituire all’assaggio, in modo più o meno comprensibile, le tracce dei luoghi e delle persone che l’hanno prodotta, di creare una risonanza – insieme intellettuale e corporea – tra noi e loro e tra i pensieri, i sentimenti di coloro che insieme la bevono.

Il simposio, momento dedicato in età classica alla degustazione e alla conversazione, era l’esaltazione di queste misteriose proprietà, il rito attraverso cui si esercitava il controllo collettivo e civile su una forza aromatica e alcolica potenzialmente distruttiva, ma anche capace di portare in superficie ciò che è profondo, i segreti dell’animo umano e quelli del mondo. Al simposiarca, un po’ come al barman d’oggi, toccava il compito di scegliere la tipologia del vino, di miscelarlo con eventuali sostanze aromatiche e, quasi sempre, di diluirlo opportunamente con acqua, così da modularne la forza in relazione all’andamento della conversazione.

Produrre un vino che riporti una storia in modo leggibile ed emozionante, che proponga un racconto memorabile è tanto complesso quanto lo sono apprendere la capacità di lettura, fare esperienza nella tecnica d’assaggio, appassionarsi ai vini che più sanno emozionare, educarsi al simposio, riconoscere l’unicità dell’essere umano nelle sue opere migliori – la Sagrestia Nuova di San Lorenzo in Firenze o un particolare Chianti Classico, ad esempio – e trovare in noi stessi, nei nostri imbarazzanti limiti, una parte infinitesima di quella grandezza.

Se c’è una cosa che il più grande assaggiatore del Novecento – per definizione di Gigi Brozzoni, a sua volta in classifica – ha insegnato dalla prima all’ultima parola che ha scritto, dal primo all’ultimo bicchiere, è la volontà testarda di cercare ovunque quella scintilla, nelle bottiglie di valore inestimabile custodite nella sua “cantina maieutica”, nei vini più ingenui, persino in quelli non del tutto corretti, purché creati per l’individuo, diceva, non per la massa.

Se chi ha assaggiato i vini più preziosi al mondo gioiva per l’allegria di un bicchiere contadino, forse può esserci utile, talvolta, allenare naso e spirito con vini semplici: a me, per esempio, ha aiutato a riflettere il Merlot di Spessa di Cividale del Friuli, acquistato in damigiana e imbottigliato con tappo a corona in una cascina nella campagna di Conegliano. Chi me l’ha regalato, un amico istitutore della locale Scuola Enologica, ne conferma le doti magiche: ha sciolto i suoi dubbi su un passaggio del Gloria di Vivaldi, da lui recentemente eseguito come corista dell’Insieme Vocale Città di Conegliano con l’orchestra I Solisti di Mosca sotto la direzione di Yuri Bashmet.

Andresa Bonini