Metti una sera a cena al Seminario Veronelli, presenti tutti i principali collaboratori, interni ed esterni, di vecchia data e di più recente acquisizione. Metti seduti fianco a fianco due appassionati, diversi per storia, formazione, esperienze, fede e politica, ma liberi e aperti. Metti, per dir di più, un nebbiolista convinto, duro e puro,  vicino ad un “già nebbiolista convinto” ed ora, in seguito alle sue ultime vicende professionali, in procinto di convertirsi al Sangiovese, folgorato sulle vie del Chianti. Metti tre Barolo, di cui riferiremo solo cru e annata (due Bussia 2001 ed un Margheria 2004), dei quali un Bussia ormai schiantato e gli altri che, mettendoci l’uno il profumo (Bussia) e l’altro il gusto e, soprattutto, i tannini (Margheria), insieme avrebbero dato vita ad un’esperienza tutt’altro che trascurabile.

Metti, poi, l’epifania di una bottiglia di Sangiovese di razza, di quelli che ti spiazzano per quanto sanno raccontarti, per quanto riescono a entrarti dentro, per quanto sono buoni. Metti, insomma, Andrea Bonini e me, dopo una serie di Nebbiolo non eccezionalmente in palla, davanti ad una bella costata di Fassona grigliata e ad una bottiglia di Percarlo Sangiovese di Toscana 2006 della Fattoria San Giusto a Rentennano di Gaiole in Chianti, provincia di Siena.

Cosa resta, alla fine, di tutte queste premesse?
Innanzitutto un vino che ammalia con la sua incredibile ricchezza, potenza, maturità, consistenza, impreziosito da caldi accenni di cuoio, una punta di tabacco, spezie finissime e persino un pizzico floreale, quasi di viola appena appassita; un vino, che però, non cede alle lusinghe del facile appagamento, perché sfodera un carattere risoluto, una grintosa acidità, freschissima, succosa, vibrante, infoltita da tannini dal nerbo e dalla struttura rigorosi, benché tessuti in una trama fittissima e aristocratica; un vino, per dirla in breve, che trova nel perfetto equilibrio tra forza ed eleganza la chiave per imporsi come una delle versioni più convincenti di questo splendido campione toscano; anzi, chiantigiano.

Resta, in secondo luogo, forse ancora più importante, una serata di allegria ed amicizia intorno a un tavolo, un pacato scambio di idee e di riflessioni, la conferma di qualche certezza, il sorgere di qualche dubbio, il desiderio di nuovi approfondimenti. Restano, infine, l’atmosfera, il calore, il convivio, la serenità, le asimmetriche consonanze e le dissonanti corrispondenze che un grande vino per l’ennesima volta ha saputo creare.

Almeno fino a che non ci ritroveremo di fronte all’eccellenza di un altro Sangiovese, di un altro Nebbiolo, o di qualsiasi altro vino capace di emozione, per rinegoziare tesi e antitesi in una nuova e più matura sintesi.

Marco Magnoli