Che differenza c’è tra bere e mangiare? Chissà per quale motivo mi viene in mente questa domanda aprendo, con la cena in tavola, una bottiglia di Breganze Rosso Crosara 2008 dell’azienda Maculan di Breganze (Vicenza). Versando il vino, rubino e denso, da uve merlot in purezza, penso a come distinguere questi due atti alimentari, queste due operazioni per cui qualcosa che è altro diventa io.

Bere è appropriarsi di una sostanza che non si oppone, che fisicamente non risulta particolarmente problematica all’ingestione. Mangiare implica, invece, il confronto con un oggetto che necessita d’essere porzionato, sminuzzato, umidificato per poter essere ingerito. La consistenza, la texture, lo stato fisico sembrano dunque discriminare tra un’azione e l’altra, lungo una scala che potrebbe andare dal solido indeformabile sino all’atto involontario del respiro.

Il diverso grado d’attenzione richiesto dalle due operazioni è forse una delle ragioni per cui, quando il consumo non è nutrimento ma esclusivamente un facilitatore sociale, generalmente si beve soltanto, tutt’al più si spiluccano cibi che non prevedono manipolazioni complesse (il finger food presenta in effetti tale caratteristica).

Annuso il bicchiere: intensità travolgente, un campionario di spezie, dal piccante del pepe al dolce della cannella, una punta di affumicato, eleganti note vegetali, un frutto maturo ma non opulento che ha conservato una piacevole croccantezza.

Non è soltanto la forza discreta dell’alcol a rendere loquaci e recettivi coloro che sorseggiano un vino: non forse è più difficile discorrere mentre si sfiletta un pesce, estraendo lische e tastando prudentemente ogni boccone? Perché un pesce ha un suo volume e una sua forma, non è un tutto omogeneo ma ha degli organi, dei tessuti teneri, commestibili, gradevoli compenetrati ad altri tenaci, acuminati e disgustosi. Un’orata, infine, se la preparazione non ne stravolge la struttura, rimane un’orata anche nel piatto, ribadisce cioè il suo essere stata viva e impone all’affamato il superamento di un’ulteriore ostacolo sul piano simbolico e intellettuale.

Niente di strano, poi, se per gioco associassi il bere a una dimensione istintiva, emotiva e olfattiva, considerato che questa connotazione ha avuto la degustazione del nostro primo drink, l’assunzione del latte materno. Il primo atto alimentare è, in effetti, un’appropriazione mediata, la suzione da un corpo nel quale il lattante è stato a sua volta, poco prima, contenuto.

E lo svezzamento non può forse essere visto come un susseguirsi di escursioni sempre più ardite che dal bere-qualcosa-di-prossimo conducono al mangiare-qualcosa-di-altro? Attraverso un processo socialmente mediato – il cibo viene reso accessibile al piccolo dai genitori – si è avviati a una relazione diretta con il mondo in cui la razionalità ha senz’altro un ruolo determinate.

In cucina gli “impedimenti” all’appropriazione – la forma, la consistenza, la temperatura… – si trasformano in altrettante possibilità espressive, spazi di narrazione, di gioco, di sperimentazione: dal famoso martello fornito da Davide Scabin ai suoi ospiti (lo si utilizza per frantumare il sarcofago del “Fossil”) sino al punto zero del brodo (che, a proposito, si mangia o si beve?).

Chi crea il vino, invece, ne sia o no cosciente, si prende cura di un processo che avviene secondo la direttrice solido-liquido, zucchero-alcol, torbido-limpido, aggressivo-confortevole, instabile-stabile. Dall’uva da mangiare al vino da bere, un cambiamento di stato che sembra riportare, appunto, alla modalità di appropriazione istintiva, emotiva e olfattiva.

Ecco trovata, finalmente, la scusa adatta per sentirmi autorizzato ad assaporare, con più naso e cuore che cervello, il Crosara 2008: conferma in bocca le sue suggestioni, completate da aromi tostati e balsamici, in un quadro di grande morbidezza sorretto da una bella tannicità levigata e da una lunga persistenza di frutta.

Andrea Bonini