Nonostante si stia per l’ennesima volta riscrivendo la sua storia (a proposito, pare che questa sia quella definitiva) e con essa tutta la storia della viticoltura europea, il fascino del pinot nero non conosce tregua. Appena si fa il suo nome, prima ancora di esprimere opinioni o valutazioni, il viso di qualcuno si illumina e il sorriso si fa più visibile sul volto di tanti appassionati di vino.
Eppure la sua produzione nostrana è alquanto limitata e relegata a pochissime regioni e lo stesso accade nel mondo, dove, oltre naturalmente a quello di Borgogna che è la sua patria natia, se ne produce poco in Oregon e ancora meno in Nuova Zelanda. Se scorriamo le pagine delle carte dei vini dei maggiori ristoranti italiani scopriamo che i Pinot Nero del nostro Paese generalmente si contano sulle dita di una mano, mentre sono ben più numerosi i vini di stampo bordolese. Se poi andassimo a curiosare nelle cantine dei tanti appassionati scopriremmo che forse di Pinot Nero ce ne saranno due o tre bottiglie.
E allora mi viene in mente Il Fascino discreto della borghesia, il famoso film di Louis Bunuel, nel quale gli invitati per un motivo o per l’altro non riusciranno mai ad iniziare la cena per la quale sono stati chiamati. Oppure al film Sideways di Alexander Payne nel quale i due amici ci parlano di Pinot Nero per poi dichiarare che la bottiglia più preziosa che hanno in cantina è un bordolesissimo Cheval Blanc. Che il Pinot Nero sia quindi l’ara sulla quale sacrificare tutti i nostri sogni enologici insoddisfatti e disattesi? Tutte le bottiglie che avremmo voluto assaggiare ma che non abbiamo avuto il denaro o il coraggio di acquistare e nemmeno l’occasione di assaggiare?
Fatto sta che ieri sera abbiamo puntualizzato l’origine di questo importante vitigno generato dall’intraprendenza e dal lavorio di schiere di viticoltori che hanno incrociato, seminato e riprodotto numerosi vitigni in alcuni e lunghi secoli della storia vitivinicola europea. Ora è certo: il pinot nero nasce dall’incrocio tra il pinot meunier ed il traminer, quando il primo popolava incontrastato tutto il centro Europa ed il secondo non era ancora aromatico, e dalla sua alta variabilità nacquero successivamente le varianti bianche e grigie.
Ieri sera il nostro fidato pubblico è stato messo di fronte a quattordici calici di Pinot Nero provenienti da diverse regioni italiane accendendo entusiasmo ma anche una netta competitività regionale, ma prima di tutto si è dovuto ricordare che il pinot nero è un vino opposto alle mode imperanti: ha un colore chiarissimo quando da tutto il mondo arrivano vini inchiostro; ha profumi di frutti freschi e fragranti mentre dal mondo arrivano vini confettura; ha bisogno di essere e affinato in barriques quando tutti i santoni predicano di botti grandi, acciaio e cemento; e da ultimo sono vini che inducono alla maleducazione in quanto impediscono la “creanza” di lasciare residui di vino nella bottiglia, nel senso che la si scola tutta fino alla fine.
I giudizi finali, largamente prevedibili da parte nostra, hanno premiato un paio di vini a pari merito dell’Alto Adige che per fragranza, finezza e freschezza non hanno avuto rivali: l’Alto Adige Val Venosta Pinot Nero Castel Juval 2009 della Tenuta Unterortl e l’Alto Adige Pinot Nero Sanct Valentin 2009 della Cantina di San Michele Appiano. Alle loro spalle un quartetto molto composito fatto di Alto Adige Pinot Nero Riserva Cornell Villa Nigra 2009 della Cantina Produttori Colterenzio, l’Alto Adige Pinot Nero Mason di Mason di Manincor, il lombardo San Giobbe dell’azienda La Costa ed l’inaspettato Cabreo Black Toscana Pinot Nero 2009 delle Tenute del Cabreo.
Facce soddisfatte, molte chiacchiere, tanti confronti, riassaggi, commenti e sorrisi.
Gigi Brozzoni