L’edizione di quest’anno di Sicilia en Primeur ha avuto uno splendido convitato di pietra; meglio, di lava, nero come il carbone ma candido di neve dalla metà fin su alla fumante vetta. Uno spettacolo di rara bellezza, suggestivo e incantevole, ma pure inquietante al pensiero di ciò che contiene e ciò che rappresenta questa piramide, la quale ha mancato l’appuntamento più ambito solo di pochi giorni. I suoi fuochi d’artificio, infatti, li ha sparati in aria solo pochi giorni prima e a noi non è rimasta che una coda di fumo tesa a sud-est.

Tutto si sarebbe svolto serenamente tra un’azienda e l’altra, tra un vino e l’altro, tra due parole con l’uno poi con l’altro e con le tante belle donne del vino di cui la Sicilia è ricca. I vini Siciliani sono sempre più buoni perché, sia nei rossi sia nei bianchi, si sta mettendo a punto uno stile siciliano autonomo ed originale, non più proteso al raggiungimento di densità, estrazioni e consistenze mirabolanti e ad imitare i vini australiani. Si è alla costante ricerca di valorizzare i diversi ambienti per quello che sanno effettivamente esprimere e quindi i territori si stanno specializzando sempre più a tutto vantaggio della qualità e della personalità dei vini.

Ci è parso anche in ascesa l’impiego delle Denominazioni di origine, persino quelle più sconosciute, forse per allenarsi al prossimo massiccio impiego della discussa e discutibilissima Doc Sicilia, mentre continua la crescita, sicura ed inarrestabile, della Doc Etna con vini sempre più buoni, precisi, con personalità originali e poco omologabili. Forse per i vini etnei stiamo vivendo anche una sorta di ebbrezza supervalutativa, che ci fa apparire straordinaria una qualità che tra qualche anno, una volta consolidata questa tendenza, riterremo solo buona o ottima ma nella norma, nello standard della Denominazione.

Il clima conviviale, tuttavia, si è fatto decisamente frizzante in seguito ad una dichiarazione dell’esimio professor Attilio Scienza, il quale, per preparare per bene il terreno ad una sua minuziosa profusione sulle varietà viticole minori scoperte in questi anni di ricerca sulle pendici dell’Etna, ha pensato bene di dichiarare che la classificazione in centesimi utilizzata dalla critica enologica di matrice americana è obsoleta e incapace di rendere giustizia ad un ricco e sconosciuto patrimonio ampelografico di tipo storico, sociale e genetico.

Si è scatenata una piccola bagarre tra i sostenitori dei precisi punteggi in centesimi, tra i propugnatori dei simboli che hanno un range più ampio (come se poi il passaggio da due a tre simboli non sia determinato da un numero), tra i difensori del valore assoluto della parola ed una miriade di distinguo non sempre di facile comprensione. Da parte nostra non possiamo che ribadire ciò che abitualmente facciamo da almeno vent’anni e cioè quello di spiegare con le parole (poche possibilmente) le novità, le invenzioni e le scoperte, ma di utilizzare poi i numeri quando tra soggetti simili bisogna mettere un poco di ordine, di classifica, di graduatoria.

Ma ormai gli echi delle discussioni si sono spenti, chetati o sospesi e sopra l’ala di destra scorgo ancora l’Etna, a tratti candido, poi picchiettato di nero, poi tutto nero e ancora più in basso maculato di verde. Sopra il pennone di fumo guarda sempre a sud-est. All’anno prossimo.

G.B.