Dalla descrizione analitica della sensazione alla comprensione della vicenda narrata, al riconoscimento di figure, moti, tensioni e distensioni, articolazioni, puntualizzazioni, momenti retorici e risonanze emotive: quando potremo comprendere meglio il discorso di un grande vino? Come capire la storia commovente, raccontata nella lingua misteriosa che ci rapisce e ci trasforma degustandone uno? Come vivere e pensare l’esperienza dell’assaggio oltre il riconoscimento delle singole informazioni sensoriali, passando dalla percezione della nota all’ascolto della sinfonia?

Il Vin Santo del Chianti Classico 1997 di Felsina, Castelnuovo Berardenga (Siena), si muove grasso nella sua veste mogano dai riflessi luminosi, tra il verde e il dorato, per ricadere rapidamente sul fondo del bicchiere. Al naso è potente, impressionante per la sua tridimensionalità: uva, datteri e prugne essiccati, miele di castagno, note di legni odorosi che ricordano il ginepro, poi elementi più piccanti, di zenzero. Bocca calda, quasi da liquore, completa, dolcissima e voluminosa, viva e sapida, chiusura lunghissima che alterna fichi, rabarbaro, frutta secca e note di torrefazione.

“L’invenzione culinaria consiste nel creare tensioni interpretative, associando sapori che ne richiamano altri, diversi da quelli effettivamente presenti (…) E tuttavia, a differenza di quello che succede, per esempio, in musica, questi sistemi di associazioni non si organizzano per formare un discorso complesso”. Sono parole di Daniele Barbieri tratte dall’interessante articolo “Mangiare sapere” pubblicato su “Semiofood – Comunicazione e cultura del cibo”, Centro Scientifico Editore, Torino 2006, p. 136.

Barbieri affronta un tema cruciale, fornendo una sua motivata interpretazione: il cibo, il vino propongono delle “intuizioni sul mondo”, dei “suggerimenti cognitivi”. “La degustazione di un sapore, come quella di un profumo, ha in effetti qualcosa di simile all’ascolto di un bel suono (…) ma dal punto di vista della musica [i bei suoni] sono semplici mattoni. La musica parte dal livello cui la gastronomia arriva”. In queste equivalenze, forse, risiede il problema: l’unità sapore e l’unità profumo non esistono, essendo rispettivamente l’insieme delle sensazioni gusto-olfattive e olfattive.

Il sapore e il profumo sono equivalenti, se mai, a una frase, a un periodo musicale. Ecco allora che la dimensione temporale – necessaria allo sviluppo di un discorso – in un piatto e in un vino si dispiega sia nel programma di degustazione, sia nel vagare dell’attenzione tra le unità aromaticche, tra tannino e acido, tra temperatura e texture. Come l’occhio si muove sulla superficie di un dipinto, come esploriamo uno spazio architettonico, così ci addentriamo in un profumo, in un sapore.

Quando annusiamo siamo allo stesso tempo interpreti (nel portare alla coscienza la sensazione) e ascoltatori (nel lasciarci risuonare dal sentito) di “intuizioni sul mondo” che possono dare vita a un discorso, così come da momenti di sensibilità e intuizione può nascere un testo lirico-poetico. Barbieri pone un interrogativo importante: ha senso ricercare la dimensione semantica dell’ultima “esperienza autenticamente e interamente dionisiaca”?

Forse la condizione migliore per conoscere è quella di chi – tra Dioniso e Apollo, tra bere e degustare – nuovo in una terra straniera, afferra il senso della comunicazione tanto dai pochi termini noti quanto dalle inflessioni delle voci, dai gesti e dagli sguardi.

Andrea Bonini