di Irene Foresti

« Il formaggio non è altro che latte con sal condito». Così è scritto nella Formaggiata del conte piacentino Giulio Landi (XVI secolo) e sono parole perfette per introdurre il tema dello statuto sociale del formaggio, da sempre oscillante fra espressioni d’amore puro e arringhe accusatorie.

Ed è così tuttora: c’è chi ama il formaggio alla follia e chi non lo può nemmeno sentire nominare. Come mai?

Per spiegarlo è utile ricorrere al proverbio che vede protagonisti il formaggio, le pere e la figura del contadino

Al contadin non far sapere, quanto è buono il formaggio con le pere

un modo di dire diffuso in tutta Italia e variamente declinato, da diversi secoli.

Prima della strutturazione di tecniche di produzione standard e dello sviluppo dell’industria alimentare, il formaggio veniva prodotto solo da contadini, pastori e consimili, appartenenti alle categorie sociali «inferiori», o da popolazioni considerate poco civili come ad esempio quelle nomadi. Inoltre, era una proteina a basso costo che in piccole quantità permetteva di sfamare molte persone, ben lontano dalla sontuosità dei prodotti presenti sulle mense ricche (poter mangiare tanto, soprattutto tanta carne, era uno degli elementi distintivi delle classi alte).

È capitato raramente che classi sociali diverse consumassero gli stessi cibi allo stesso modo, motivo per cui il formaggio doveva essere in qualche modo nobilitato per poter essere ammesso alle tavole nobiliari. La frutta, in quanto prodotto inaccessibile ai contadini (ciò che cresceva in alto sugli alberi, lontano dalla rozza terra, era appannaggio dei signori) si prestava perfettamente a ingentilire il formaggio e a garantire un distinguo rispetto al suo consumo in ambito rurale.

Questo non è l’unico esempio, nella storia del cibo, di nobilitazione di ingredienti ritenuti poveri mediante l’associazione con prodotti d’élite: lo scrittore bolognese Sabadino degli Arienti, nel XV secolo, in una novella testimonia la nobilitazione dell’aglio, altro alimento estremamente volgare, grazie al suo utilizzo per cucinare un papero arrosto (ricetta «alta» tout court).

Il proverbio del formaggio con le pere, grazie alla sua ampia diffusione territoriale e alla sua longevità, testimonia inequivocabilmente come questo alimento sia partito dal basso per assurgere alla stima di cui gode oggi.

Si pensi che nella Bibbia (o meglio nella Vulgata, sua traduzione latina del IV secolo), il formaggio viene associato ai peccatori, il cui cuore è indurito come latte coagulato (coagulatum est sicut lac cor eorum). Una pubblicità decisamente poco edificante.

Lo statuto sociale del formaggio, insomma, in epoca antica, non era granché.

La svolta avvenne nel Medioevo quando, grazie alle imposizioni religiose del consumo di magro in certi periodi dell’anno, colui che «non è altro che latte col sal condito» ha potuto accedere prima alle mense monastiche (i monaci erano quasi sempre di famiglia nobile) e poi a quelle signorili.

L’elevazione sociale del formaggio è divenuta possibile anche grazie alla diffusione della pasta, originariamente consumata quasi solo «in bianco», e alla standardizzazione e affinamento delle tecniche casearie (sempre ad opera delle comunità monastiche) che hanno consentito la produzione dei primi formaggi di qualità, distinguibili dagli altri per caratteristiche precise. E siamo attorno al XV secolo.

Questa importante evoluzione, nel tardo Medioevo, ha determinato l’ingresso dei formaggi nei ricettari di corte e il costume, fra i signori, di regalarseli a vicenda, abitudine sopravvissuta fino a pochi decenni fa, quando al maestro, al «dottore» e al parroco si regalavano formaggi, conigli, capretti, capponi…

Da questo momento in poi ha preso il via l’alternanza, ancora attualissima, di amore e odio nei confronti del formaggio, tanto che moltissimi autori e scrittori lo hanno nominato nelle loro opere o, addirittura, lo hanno reso protagonista delle stesse, nel bene o nel male.

La già citata Formaggiata del Landi, per esempio, è una vera e propria lettera d’amore e l’autore arriva a disquisire sull’opportunità di dargli un nome che gli renda maggiormente giustizia «formaggio, se filosoficamente nominar lo vogliamo» e sulla necessità, comunque, di non chiamarlo cacio, termine non all’altezza.

A tessere le lodi del formaggio sono anche lo scrittore bolognese Giulio Cesare Croce (che nel XVI secolo pare aver scritto il testo Alfabett in lod dol bon formai) e, ancora prima di lui nel XV secolo, il poeta palermitano Antonio Beccadelli, autore della Elogia de caseo, un testo nel quale è il formaggio stesso a parlare in prima persona raccontando la propria storia.

Altro elogiatore del formaggio è stato il poeta bergamasco Bartolomeo Bolla, autore del De casei stupendis laudibus (XVII secolo) un’opera in cui il niveo alimento è investito di due importanti meriti.

Il primo è il suo ruolo nello sviluppo culturale dell’uomo: facit homines sapientes, anzi, sapienta sine caseo consistere non potest vale a dire ha reso l’uomo stesso un sapiente e anzi, la sapienza non potrebbe esistere senza il formaggio.

Il secondo per essere stato l’artefice indiretto della fondazione della città di Roma: secondo il Bolla, infatti, Romolo avrebbe garantito ai primi romani le loro future mogli, ingolosendole con la promessa di formaggio e vino.

Fandonie?

Piuttosto colorite espressioni maccheroniche, molto probabilmente prive di fondamento storico-scientifico, ma indici inequivocabili di quanto il formaggio fosse stimato da alcuni autori.

Rovescio della medaglia: c’erano anche feroci detrattori, altrettanto coinvolti da giungere a scrivere veri e propri trattati contro il formaggio, come suggeriscono bene i loro titoli. Il Tractatus de aversatione casei di Martinus Schoockius, il De casei nequitia (traducibile in L’inutilità del formaggio) di Giovanni Lotichio e Il formaggio biasmato, ossia biasimato, di Giovanni Gatti.

Risalgono tutti al XVII secolo, almeno stando alle date di pubblicazione o di nascita e morte dei loro autori, i quali si inseriscono in un contesto molto più ampio, frutto non solo e non tanto di gusto personale, bensì delle teorie medico-scientifiche in voga a quei tempi.

Si riteneva, infatti, che il formaggio fosse difficile da digerire, che creasse flatulenze (ventosità, come si diceva all’epoca), secrezioni pituitose (vomiti, sputi ecc.), calcoli renali, gastriti e altri malanni.

Insomma, lo statuto sociale del formaggio, nel corso dei secoli, è stato oggetto di altalenanti vicende che lo hanno visto ora idolatrato, ora condannato e, del resto, è così ancora oggi.

Senza entrare nello spinoso argomento delle varie allergie e intolleranze (vere o presunte) al lattosio, alle proteine del latte ecc., il formaggio continua ad accendere un fecondo scontro di sapore spiccatamente culturale: mentre in Europa, e in Occidente, in genere l’approccio al consumo caseario è quasi sempre questione di gusto personale e il formaggio stesso è considerato un alimento tout court, in Cina, Giappone e molti altri paesi asiatici la lattofobia è diffusa ovunque.

Si tratta di uno dei tanti tabù alimentari che hanno profonde origini storiche e che non sono da intendersi come semplici questioni di gusto, ma come l’odierna espressione della storia e dell’evoluzione dei vari popoli: una sorta di identità etnica che ognuno di essi si porta dietro da sempre.

Come noi non mangiamo cani e gatti, in molti paesi orientali i formaggi sono considerati «orrida roba andata a male». Addirittura i giapponesi dicono che gli europei hanno addosso la bata kusai, ossia la puzza di burro o puzza di formaggio, dunque puzza di straniero.

L’ambivalenza storica del formaggio, curiosamente, era già presente nella cultura greca antica, dove lo stesso era l’importante attributo di due personaggi fra loro molto diversi, per non dire proprio agli antipodi: Polifemo e Aristeo.

Il primo è il selvaggio Ciclope pastore che conduce le greggi e produce formaggi (oltre a mangiarsi i compagni di Ulisse per cena) mentre il secondo è il mitologico figlio di Apollo e Cirene, il giovane pastore che ha insegnato agli uomini i segreti della pastorizia e della produzione casearia, oltre a quelli dell’apicoltura.

La figura di questo Prometeo caseario, che pare aver mostrato l’arte anche a siciliani e ai sardi, rappresenta molto bene lo statuto sociale che il formaggio aveva in Grecia in epoca classica: era considerato alimento simbolo dell’uomo evoluto, acculturato poiché liberatosi dalle espressioni primitive della natura umana grazie alla capacità di trasformare le materie prime naturali in alimenti come pane, vino, olio e (appunto) formaggio. Non è un caso, del resto, che in epoca classica molti atleti olimpici seguissero una dieta a base di latticini e che lo stesso Ippocrate abbia sottolineato le virtù salutistiche proprio del formaggio.

Omero, dal canto suo, ha introdotto l’altra faccia della medaglia associandolo al barbaro pastore Polifemo, forse inconsapevole di quanto questo binomio (traslatosi poi anche sul mondo contadino) sarebbe rimasto in vita per secoli.

È molto probabile che non lo abbia fatto con l’intento di gettare cattiva luce su alcune categorie sociali, ma che si sia limitato a descrivere la figura del pastore, inequivocabilmente legata alla produzione casearia e dalle maniere certamente non molto raffinate, enfatizzandola per arricchire la trama dell’Odissea.

Ma questo è argomento della prossima puntata.

Per riabilitare la figura di contadini e pastori, per ora vi basti sapere che in Toscana esiste questa replica popolare al famoso proverbio del formaggio con le pere: « ma il contadino, che non è minchione, lo sapeva prima del padrone!».


Irene Foresti

Nata a Tavernola Bergamasca (BG) nel 1983, è laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari per la Ristorazione. Dopo essersi occupata della direzione di impianti della grande distribuzione food, di educazione alimentare e marketing e comunicazione dei prodotti alimentati, da alcuni anni è Direttrice Qualità e Sicurezza Alimentare di un’azienda di ristorazione collettiva che gestisce i servizi di refezione presso scuole, aziende, ospedali e case di cura.

Nel tempo libero, appassionata di lingua, storia e cultura dell’alimentazione e della cucina, ha compiuto studi e ricerche. Ha scritto Cibi, gusti e sapori, tra monti e lago (Edizioni Sebinius, 2011), Franciacorta: storia di sapori (Edizioni Sebinius, 2012), Cibo, terra e lavoro (Centro Studi Valle Imagna, 2017), Stracchini (Centro Studi Valle Imagna, 2020).