di Francesca Motta

Intervista a Massimo Pulicati, che ci racconta la storia del suo ristorante, della sua famiglia e della sua amicizia con Luigi Veronelli.

L’Oste della Bon’Ora
Viale Vittorio Veneto 133,
Grottaferrata (RM)

Tra le mete del Lazio più amate vi sono certamente i Castelli Romani, un complesso di storici borghi che si estende sui Colli Albani, a poca distanza da Roma.

È molto semplice capire perché questi luoghi siano così gettonati: qui, come in nessun altro posto, si respira la storia, la cultura, la tradizione che si intrecciano con panorami mozzafiato che colpiscono il cuore dei visitatori in maniera indelebile.

E non solo. Gli amanti del vino e del cibo troveranno in queste deliziose cittadine un vero e proprio paradiso in terra: pane fresco, pupazza frascatana, porchetta, broccoli, carciofi, pesche, uva, fragole, castagne, cioccolato. E questi sono solo alcuni dei prodotti gastronomici locali più richiesti.

Uno dei paesi più eleganti dei Castelli Romani è Grottaferrata, che deve il nome a una cripta sopra la quale verrà costruita nel 1004 da S. Nilo Egumeno l’Abbazia di Santa Maria, una vera e propria perla architettonica.

È proprio qui, in questi vicoli tra chiese antiche, palazzi storici e ville nobiliari, che Massimo Pulicati, nel 2004, ha dato vita al suo locale L’Oste della Bon’Ora, ristorante gourmet semplice, ospitale, elegante, ora gestito dai figli.

Ho avuto l’immenso piacere di parlare con Massimo in persona, amico di Luigi Veronelli che ancora oggi ricorda con affetto e commozione, una persona estremamente piacevole che mi ha raccontato la storia del ristorante, della sua famiglia e della sua amicizia con Veronelli.

Come hai conosciuto Luigi Veronelli?

Quando negli anni Ottanta ho fondato il mio primo ristorante, una sera vennero due clienti sommelier e mi chiesero uno Chardonnay e un Sauvignon. Il locale non era moderno, come oggi, e io non sapevo cosa fossero né lo Chardonnay né il Sauvignon, perciò chiesi se si trattasse di due cantine.

Loro si misero a ridere e non smettevano più, allora andai nella cucina, al piano di sotto, per chiedere spiegazioni a Marisa, mia moglie. Lei mi disse «Ma che sei scemo? Chardonnay e Sauvignon sono due vini! »

Avevamo appena aperto, dopo aver concluso un’esperienza lavorativa in carcere, in pieno periodo delle Brigate Rosse, perché la mamma di Marisa, cuoca, preferiva che cambiassimo ambiente.

Comunque, questi clienti mi avevano fatto rimanere male, ma ignorante ci rimane chi non vuole crescere.

Chiesi a Marisa cosa dovessi fare per diventare un esperto di vino e lei mi disse di contattare un signore che parlava di vino da tanto tempo e che si chiamava Luigi Veronelli.

Ho preso l’elenco telefonico, ho trovato il suo numero di Bergamo e lo chiamai a casa.

Quando mi rispose, subito mi venne da chiamarlo «maestro» perché mi sono sempre rivolto a lui in maniera reverenziale, non tanto per quello che ha fatto, ma per la persona che era: aperto e umano.
Ma lui mi disse subito: «Tu sei un mio amico paritario, mi devi dare del tu e non mi devi chiamare maestro», mettendomi subito a mio agio.

Io mi feci furbo e gli dissi l’unica cosa che poteva aprire il suo cuore, da un romano ignorante come me, ovvero che ero un grande fan di Gigetto Carnacina, il suo maestro.

E poi gli dissi che dovevo studiare il vino, perché non sapevo niente al riguardo, e volevo che lui mi insegnasse. E così è stato. Mi invitò al Vinitaly, che all’epoca era una fiera con 400-500 persone, tra vignaioli e produttori che si volevano fare conoscere. Quando arrivai lì non sapevo come farmi trovare, allora mi alzai su una sedia e urlai «Gino! Sono Massimo, l’amico di Gigetto». I miei amici, terrorizzati, mi abbandonarono, ma lui si fece largo tra la folla per arrivare davanti a me e mi portò con sé.

Da allora è cominciato un amore che non è mai finito. Ancora oggi, per l’anniversario della sua morte, organizzo delle serate in suo onore.

Com’è nato l’Oste della Bon’Ora?

All’epoca gestivo un ristorante che faceva cucina vegetariana. Veronelli, solo a sentire il termine vegetariano, storse la bocca: un romano che aveva un locale vegetariano, con la suocera che faceva cucina romana e la moglie che era un talento, non si poteva sentire. Anni dopo, nel 2001, aprii il Vivien che Gigi premiò con il Sole Veronelli che tengo ancora nel mio ristorante.

Ancora oggi lo ringrazio, perché lui reincarnava quell’umanità che oggi manca.

Un anno dopo, nel 2004, trovai un nuovo locale e lui mi consigliò di chiamarlo Vivien per continuarne la storia, dopo che ne aveva parlato così bene e lo aveva premiato. Marisa, tuttavia, voleva fare autentica cucina romana e ne parlò direttamente con Gigi, amante delle donne, soprattutto delle cuoche, dicendogli che voleva chiamare il locale L’Oste della Malora, perché tutti parlano di cucina, di vino, ma nessuno caccia una lira né per il vino né per la cucina. E come diceva Gino Veronelli, la cucina non è democratica, bisogna conoscere qualcuno o bisogna spenderci qualche soldo.

Gli telefonai e gli dissi «lo chiamiamo l’Oste della Bon’Ora.  Lui ci pensò un secondo, si complimentò con me e mi mandò da Pablo Echaurren, un suo caro amico e pittore affermato, che mi regalò il logo del ristorante. Subito scrisse del mio ristorante la cosa più bella, descrivendolo come uno dei vertici della cucina reale, in tempi di piena cucina molecolare, cosa per cui ho sempre pianto.

Poi la sua malattia e infine la sua morte: credo di essere uno dei pochi suoi allievi che ancora oggi fa serate in suo onore. Gino è uno di quelli che lasciano il segno. Nella vita ho avuto tanti maestri, ma nessuno umile e umano come lui, che aveva la mente, ma anche il cuore, ed era diverso. Gino non morirà mai finché noi lo portiamo nel cuore.

Quale filosofia guidava la cucina quando ha aperto il locale? È cambiata nel tempo?

No, non è cambiata. Oggi abbiamo più ristoranti, perché i nostri figli sono giovani e hanno obiettivi diversi, ma la cucina è sempre in mano a Marisa. A oggi, mia moglie ha otto cuochi e segue la stessa filosofia che seguiva allora. Marisa cucina di tutto e spazia con i piatti, perché non cucina con la tecnica, ma con il cuore.

Adesso l’Oste della Bon’Ora è un po’ più moderno, perché io ho rotto le scatole a mio figlio per fare esperienza, andare da Cracco, sperimentare nuove tecniche, mentre io ho aperto l’Oste Matto sempre rispettando l’ideale di osteria di Gino.

L’Oste della Bon’Ora, comunque, non ha perso quella continuità, ma si è un po’ modernizzato, e sono sicuro che Gino ne sarebbe stato contento perché siamo sempre attenti alla filosofia, al chilometro zero, mentre Marisa segue tutti i cuochi, guardando al lato umano. Quando un cuoco non ha umanità non può fare un buon piatto.

ricotta cheese with basil leaves and cherry tomatoes on wooden table

Gino, infatti, adorava tutti i piatti romani cucinati da mia moglie, in particolare la coda alla vaccinara, votato da lui come piatto dell’anno nel 2004.

La cucina non è cambiata, si è evoluta perché pure noi abbiamo visto nuovi luoghi e fatto nuove esperienze. Quando siamo andati a Eataly Milano abbiamo conosciuto molta gente e lavorato anche con stranieri: sono esperienze che portano a migliorarsi. L’Italia è un paese di cannibali, dove non c’è il senso dell’estetica e l’etica del piatto, ma solo dell’abbondanza, qua non si pensa al cibo come a qualcosa che aiuta il cuore, la mente e l’anima, ma si vuole solo mangiare e bere. E io non voglio questo tipo di clientela. Come quando si fa l’amore, tanti si accontentano di una «botta e via», ma a me piace l’amore vero e proprio, come quello che faccio con Marisa.

La famiglia come si divide tra i ristoranti?

In tutti e tre i ristoranti c’è ognuno di noi. Flavio, il piccolo, che dormiva sui divani, adesso gestisce l’Oste della Bon’Ora insieme a Marisa, Marco ha aperto un bistrot a Roma Tuscolano insieme alla compagna di Flavio che ora aspetta una bambina, io, invece, sono andato in centro a Roma perché avevo questa esigenza, in Via dei Banchi Vecchi, per aprire un locale che è esattamente la copia dell’Oste della Bon’Ora del 2004. Tutto rimane in famiglia, poi noi ci scambiamo i ruoli qualche volta, ma quello che conta è l’umanità.

Menù. Come si distingue e ogni quanto subisce variazioni?

Marisa ragiona così: la tradizione della mamma, che era una romana, cuoca negli anni Cinquanta, non può essere toccata, può essere solo arricchita, o modificata nel senso della cottura, della temperatura. Oggi ci aiuta molto il sottovuoto, ad esempio, che aiuta a conservare la coda perfettamente. Il piatto deve essere sempre legato alla tradizione, possibilmente romano-laziale, ma anche un po’ italiana o contemporanea. Poi ci sono piatti come il fegatello, che a Marisa non piaceva, ma che sua mamma cucinava sempre. Allora Marisa cucina il fegatello come lei lo mangerebbe: cotto in padella, viene sgrassato, condito con l’alloro, ed esce fuori qualcosa di eccezionale. Mentre questi piatti come il fegatello, la coda o la trippa non cambiano, altri sono stagionali: si parla di piselli, del pollo con i peperoni, dei broccoletti in inverno, dei funghi in autunno e così via. Il menù non lo decidiamo noi, lo decide la natura, pur consapevoli che oggi, grazie alla modernizzazione, si possono mangiare le ciliegie a dicembre e i broccoletti a fine primavera, ma questo non c’entra niente.

Quindi, Veronelli ti ha aperto le porte al mondo del vino?

Gino mi ha insegnato tutto sui vini. Una volta, mi portò a una degustazione di un Moscato che gli piaceva tanto presso l’Azienda Agricola Caudrina di Romano Dogliotti ed è stato qualcosa di eccezionale. Chiese una magnum a Romano e mi insegnò la differenza rispetto a una bottiglia da 0,75. Mi ha spiegato tutto, dal Brunello di Montalcino all’Amarone. Quell’esperienza del Moscato non l’ho mai dimenticata, è stata un’esperienza unica con Gino, Dogliotti e anche Marisa, che è sempre stata presente a questi avvenimenti.

Da lì è nato un rapporto con gli amici del Barolo: ogni Vinitaly era una festa con i produttori e tutti gli amici di Gino diventavano amici miei.

L’altra persona che mi ha insegnato tanto di vino è stata, oltre a Gino, Franco Biondi Santi, che era un vero signore. Quando Gino gli telefonò dicendo che l’Oste sarebbe andato da lui, Franco ci accolse in maniera eccezionale con una bottiglia di Brunello che solitamente non apriva mai.

Dalla Sicilia fino alla Val d’Aosta, ho conosciuto tanti produttori e in più ho letto i libri di Gino, da cui secondo me si dovrebbe partire per farsi una cultura.

Poi ti racconto un’altra storia: quando nel 2003 Gino venne a presentare il Critical Wine da me, mi portò in un posto che oggi definirei come Scampia, dove regalò un Gaja ai giovani senzatetto. La presentazione la fece nel mio locale e tutti vennero vestiti elegantissimi, Gino arrivò direttamente da Bergamo e conobbe tutta la mia famiglia: per due ore lo ebbi tutto per me, che ero molto geloso del nostro rapporto.

Parliamo quindi della carta dei vini. Chi se ne occupa e come vengono selezionate le etichette?

Della Carta dei Vini dunque me ne occupo io insieme a Flavio, che proprio oggi è andato all’Enoteca del Gatto da un amico di Gino per prendere qualche vino biologico.

Ma devo dire qualcosa a proposito del mio metodo di selezione dei vini.

Quando Gino venne a presentare il Critical Wine, i ragazzi mi avevano fatto una maglietta con su scritto “Critical Wine numero 1”. Quando egli morì, io mi levai quella maglietta e gliela portai, poi mi portò via Gianni Mura perché ero un troppo emozionato. Comunque, quando Gino presentò il Critical Wine, io feci un cestino di parmigiano che mi insegnò Gualtiero Marchesi e Marisa ci aggiunse carciofi, il guanciale e tanto altro: era una sorta di antipasto per i clienti. Quella sera al tavolo c’era anche un produttore che mi colpì molto, ma poi non ebbi occasione di essere in contatto con lui.

Nel 2017, in occasione del matrimonio di mio figlio, con Marisa aprimmo un Didier Dagueneau del 2004, ma c’era un’altra bottiglia del 1998 che era qualcosa di speciale. Quando il giorno dopo andammo a Gubbio in un agriturismo e raccontai al Sommelier del Dagueneau, gli dissi anche che avrei voluto bere un vino che raccontasse una storia, dato che in mente avevo solo quello della sera prima. Questo sommelier mi diede un Syrah di Cortona e io dissi “lo assaggia Marisa, se a Marisa non piace non lo prendiamo, perché io sono felice così”.

Questa bottiglia era qualcosa di eccezionale e presi subito nota del nome. Chiamai il produttore, partii e andai a trovarlo, nonostante la strada per arrivare da lui fosse estremamente ostica. A sorpresa, era lo stesso produttore che avevo incontrato al Critical Wine e si trattava di Stefano Amerighi, con cui è poi nata una grande amicizia.

Per quanto riguarda la nostra carta dell’Oste, dunque, sono 50 anni che sono molto innamorato di Marisa e ne sono fedele, ma quando mi innamoro di Elisabetta Foradori mi innamoro di Elisabetta Foradori, quando mi innamoro di un Frascati mi innamoro di un Frascati, quando mi innamoro di Marisa Cuomo mi innamoro di Marisa Cuomo.

Va a cuore e sentimento, io non posso farci niente, devo subire questa influenza molto forte.

I produttori devono essere persone che stanno vicino alla terra, devono essere moderni, devono stare attenti al verde. La scelta del vino ricade proprio su di loro, sulla loro storia, sul loro territorio, ma bisogna anche dare spazio ai giovani, che molte volte sanno regalare qualcosa di nuovo.

Soprattutto in un momento del genere dove fra poco non potremo più comprare i vini importanti perché c’è un mercato gigante al di fuori dell’Italia da cui noi veniamo esclusi.

Bisogna quindi avere la mente aperta e dare spazio ai nuovi produttori. Come etichette, ne abbiamo diverse: diamo molto spazio ai vini locali laziali e dell’area dei Castelli Romani, ma l’Oste tendenzialmente non si dimentica di nessuno.

Come diceva Gino, teniamo sempre a mente che è meglio il peggior vino del contadino che il miglior vino dell’industria, perché il contadino ha sempre le mani coi calli.

Come avete affrontato il periodo di pandemia?

Di merda. Io sto al centro di Roma, che si è svuotata. Qualcuno viene, ma non è la stessa cosa. Il Bistrot ha lavorato bene, perché in quartiere, il Tuscolano, che è grande come Firenze, hanno esteso il locale esternamente e i piatti si potevano portare a casa, ma adesso sta calando. L’incertezza è troppa. Se Gino fosse tra noi avrebbe sofferto in silenzio, essendo uno che ha sempre dedicato la vita ai viaggi, alla cucina, al vino.


FRANCESCA MOTTA

Nata e cresciuta a Milano, dopo aver ottenuto la maturità classica presso il Liceo Classico Virgilio, si è trasferita ad Oxford per lavorare nella ristorazione e per conseguire un diploma di perfezionamento in Scienze Politiche. Successivamente, decide di dedicarsi al volontariato e parte alla volta del Ghana, dove tiene corsi di diritti umani nelle scuole di Accra. Solo dopo aver conseguito la laurea in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee presso l’Università degli Studi di Milano, ha deciso di dedicarsi alla sua vera passione: il vino. Comincia a frequentare il corso per sommelier con AIS Milano e ottiene il Master in Wine Culture and Communication presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Ad oggi, fa parte della redazione del Seminario Veronelli.