Ha due facce, questo nostro pane.

Una Kenwood o Moulinex, ed è una macchina che fa tutto lei, un fornaio meccanico, precisissimo.

La sua adozione domestica è stata una rivoluzione, che ha rimesso al centro della cucina, un alimento contrastato da pizze e paste, umiliato spesso in tavola da biscotti e grissini, wafer e wasa.

Il mio pane è ritornato nella doppia accezione soggettiva oggettivamente garantita dall’industria, e in tavola fa la sua figura, con minestre e salse, carni e formaggi.

Altra faccia oggi, in casa, è quella descritta da Rita Monastero ne I pani dimenticati, del 2015, anno dell’Expo.

Basta sfogliarlo, e il milanese trova il pan tramvai detto panettone dei poveri, e non guarda più le rotaie nello stesso modo, o scopre una puccia che nel suo dialetto è il sugo in cui si intinge con piacere, mentre, in Puglia, le sue farine miste stringono olive nere e piccole, ed è una delizia che, laggiù, nessuno dimentica, si trova in commercio e viene preparata in casa.

Due facce che ne fanno un prodotto immaginario, perseguito ormai da chiunque ed io stesso che ho un bisnonno fornaio che produceva pane di Como, e ne spediva ogni mattina col treno a Milano, nell’anno 1900, non posso esimermi dal ricordarlo, anche se non lo trovo più in qualsiasi negozio della mia città, e il ricordo stesso è sbriciolato.

La macchina e la memoria giocano assieme in questa nostra civiltà alimentare, e il covid le ha accolte in un nuovo contesto con chiusure sistematiche e pranzi senza amici, pochi ma buoni, rivendicando il ruolo eminente ad un oggetto che le farine non hanno mai tradito e le forme continuano a suggestionare con caragrazia.

Per qual ragione abbia avuto questa attenzione, lo scopriamo nella nostra ricerca disperata di porre al centro del nulla un oggetto non religioso ma laico, non allusivo ma concreto al punto da farsi mordere con piacere.

Quale futuro? Quello di continuare a costituire l’epicentro del nostro sistema alimentare anche se tornerà travestito da panino, nelle strade della città, o finirà a croste e briciole ad essere analizzato da uno storico o da un archeologo. 

Crediti fotografici: Archivio SV e M. Monasta

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Alberto Capatti

Alberto Capatti

Nato a Como il 2 novembre 1944, è uno tra i principali storici della gastronomia italiana e da molti anni si occupa di storia dell’alimentazione e di cultura materiale.
Ha diretto, dal 1984 al 1989, “La Gola. Mensile del cibo, del vino e delle tecniche di vita materiale” in cui prendeva forma di rivista un poderoso e inedito mix arte, letteratura, design, cucina, antropologia, grafica… che uscì in edicola dal 1984 e il 1991.
Capatti è stato direttore scientifico del Comitato Decennale Luigi Veronelli.
È stato membro del Comitato direttivo dell’Institut Européen d’Histoire de l’Alimentation (dal 2005 al 2012).
È stato il primo rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, e direttore di “Slow”, rivista di Slow Food dal 1994 al 2004.
Nel 2001 ha curato, con la direttrice della Bibliothèque de l’Arsenal la mostra «Livres en bouche» presso la Bibliothèque Nationale de France.
Fa parte del Comitato scientifico di CasArtusi.
Dal febbraio 2018 è presidente della Fondazione Gualtiero Marchesi.