Incontro con GP Cremonini, cuore battente e testa in fermento di una nuova ristorazione a Venezia
di Simonetta Lorigliola


RIVIERA
Ristorante per onnivori
Fondamenta Zattere al Ponte lungo, 1473
Venezia
ristoranteriviera.it

Ben venga maggio. Il Riviera, a Venezia, riapre il 15 maggio. Si tratta di una piccola perla che amalgama alta cucina, sensibilità e pensiero critico, calda accoglienza, curata cantina. Una perla delle perle, dato che si trova a Venezia, dove la ristorazione d’eccellenza, negli anni, si è trovata circondata da parametri in cui le parole ricerca, qualità e servizio erano state quasi del tutto derubricate dal lessico gastronomico. La ripresa dopo la pandemia potrebbe diventare il topico momento in cui azzerare il destino di triste mediocrità in cui l’offerta gastronomica della città lagunare sembrava inevitabilmente destinata.
E le riflessioni e gli esempi da cui ripartire non mancano, teorici e pratici.
Ripartiamo dal Riviera, dunque. Una perla come quelle che possono nascere nelle ostriche, frutto di lungo sedimento materiale e spirituale, nel silenzio dell’acqua, del mare. Òstrega!

Il Riviera – ristorante per onnivori, dove “mangiare tutto” si differenzia molto bene dal “mangiare di tutto”…

Un ristorante è un luogo politico. Tu ti siedi al tavolo e affidi la tua vita e la tua salute nelle mani di qualcuno. È una responsabilità enorme, quella del ristoratore. Che può fare due cose. Cercare prodotti realizzati con buon senso e onestà (cose diverse da una burocratica certificazione) che favoriscano la crescita di un’economia diffusa e che siano frutto di sensibilità ambientale, con una tracciabilità assolutamente impeccabile. Quel ristorante sarà, in questo modo, presente e attivo sul territorio. E sceglierà solo prodotti che facciano bene al nostro corpo.

Oppure il ristoratore può scegliere la strada dell’agroalimentare, della concentrazione della ricchezza in poche mani e gruppi, prodotti quasi mai tracciabili, spesso artefatti e costruiti. Che non possono certo fare bene al nostro corpo…
Ed ecco che, in questa scelta, il ristoratore fa una scelta politica. Che ha, in entrambi i casi, un impatto diretto e continuativo sul territorio.

In questo quadro di scelte, opzioni, percorsi, cosa dicono i tuoi pensieri dentro questa pandemia?

La prima cosa che mi viene in mente è che Venezia è bellissima, solinga.
Non la vorrei perpetrare così vuota, sia chiaro. Ma questo svuotamento dovrebbe far pensare chi la governa sull’originaria bellezza di questi luoghi, generalmente soffocata e invisibile.
L’unica nota insolita in questi mesi, non ci ha dato alcuna novità. Abbiamo assistito alla discesa di orde, di individui razza piave ossia veneta, che il sabato e la domenica vengono a fare le uniche gite possibili, quelle dentro i confini regionali. Venezia è naturalmente l’obiettivo numero uno per il Veneto, se in zona gialla. E così arrivano nel fine settimana (in giornata), anche 25.000 persone, vengono tutti in auto per la paura del contagio durante il viaggio. E già questo crea un intasamento mai visto sul ponte che porta dalla terraferma a Piazzale Roma. Poi scendono dalle automobili e si riversano in città.
E Venezia ripete il suo ritornello, a discapito della sua identità e di quello che potrebbe offrire, servire, valorizzare, se fosse pensata e governata in altro modo.

Venezia sembra invece oggi condannata a essere un immenso Parco di divertimento in cui l’unica finalità è far girare i soldi e farli finire nelle tasche giuste. Mi intristisce dirlo, ma è ciò che sta accadendo.
Noi siamo fieri di essere veneziani, in questo momento, ma è molto dura. La speculazione sulla città è evidente: nessuna politica che favorisca la residenza, l’idea di una polis veneziana è lontana mille miglia.
I problemi gravi legati all’acqua alta sono il minimo, rispetto alla distruzione sistematica di un’anima, una visione, un’idea di futuro.

Io sogno una Venezia diversa, rinata, rivitalizzata. Pensiamo, ad esempio, a come sarebbe bella la città se si investisse sulla rinascita di orti e giardini…

Quanto contano la storia e la tradizione di Venezia nella cucina del Riviera? E qual’è il paradigma centrale della vostra proposta gastronomica?

Veronelli diceva che la tradizione è una piattaforma su cui puntare i piedi per fare un balzo in avanti. E io aggiungo una domanda: cosa si cerca nella tradizione?
Non una filologica corrispondenza tecnica a un pensiero del passato, credo.
Quando guidi l’automobile guardi avanti, se guidassi guardando solo nel retrovisore si sa come andrebbe a finire. E allora, si guarda indietro solo ogni tanto. In cucina è uguale.

In un piatto “di tradizione” si cerca, in fondo, quel calore e quell’umanità che hanno creato un ricordo piacevole, che aggiunge senso alla vita. E proprio per questo non si può fare della tradizione un paradigma: il mondo di oggi è diverso da quello di un tempo. Persino le seppie non sono le stesse che faceva ma nonna, perché è il mare a essere diverso, senza voler stare a dire il perchè e il percome: è diverso.
Eppure, comunque, da un piatto, si può cavare fuori quel senso. La nostra cucina poggia su questa ricerca di significanti.

Dentro questo percorso semantico e gastronomico, quanto conta l’approccio sensoriale?

L’unica cosa che ancora oggi rappresenta la normalità, l’essere parte dell’umanità, è il corpo, nudo e crudo. Per arrivare a questa “normalità” ci abbiamo messo migliaia di anni. E ci siamo modificati anche attraverso quello che mangiavamo. L’agricoltura non è sempre esistita, e ha determinato una svolta abissale nella dieta quotidiana. Ci ha modificato. Poi i commerci, i viaggi, gli scambi hanno portato ancora nuove abitudini gastronomiche.
Ma c’è sempre stato un legame indissolubile, quello tra il cibo e la terra.
Questo legame viene drasticamente spezzato con la nascita dell’agricoltura intensiva, giustificata anche dal fatto che oggi in moltissimi devono mangiare. Ma mangiare cosa?

Cosa deve produrre una pianta di pomodori oggi? Pomodori? No, soldi.
Ovvero tanti pomodori, possibilmente immarcescibili che devono dare tanto profitto.
E che sapore potranno avere? Inerte. La nostra umana memoria ancestrale non li riconoscerà nemmeno. Non sto dicendo che dobbiamo mangiare il cibo di 1000 o 500 anni fa. Creperemmo! Ma è un obbligo interrogarsi sulla produzione, su cosa la guidi, su cosa si voglia distruggere o salvaguardare. E il nostro corpo è quello che può guidarci nel sapere cosa è buono e cosa non lo è, perché sa, ancestralmente, decifrare i sapori.

Questo può rischiare di diventare un approccio minoritario?

Non credo. È solo un problema di coscienza. Se prendi coscienza di te stesso, dell’indipendenza del tuo pensiero, tutto è naturale.
Non voglio darmi un’aria filosofica. Il filosofo lo posso fare solo quando sono al Bar “I pugni”.
Ma voglio dire che se tu metti te stesso, come uomo o come donna, al centro dei tuoi pensieri, in una sorta di sano egoismo, non puoi non vedere tutte queste cose. Io lo vedo nel mio lavoro di ristoratore, in sala. Quando verbalizzi questi ragionamenti, proponi certi piatti vedi subito che stai offrendo qualcosa che il visitatore in fondo riconosce, ha dentro di sè.
La sensibilità verso l’humanitas ce l’abbiamo tutti, bisogna solo vedere se e quando vogliamo ascoltarla.

L’ascoltare ci porta dalla gastronomia alla musica, tuo terreno di ampia frequentazione….

Quando suonavo per professione (è stato a lungo un contrabbassista ndr) mi ero reso conto che un musicista è prima di tutto un paio di orecchie. Se non si ascolta, non si può suonare.
Devi saper ascoltare tutto quello che c’è in una nota.

Un artista è come una radiolina old style: un’antenna che becca un segnale e lo trasforma in un linguaggio comprensibile ai più. Il suo dovere è quello di rendere quei circuiti più neutri possibili, per far uscire quel segnale il più pulito possibile. Lo stesso vale nelle cucine di un ristorante e anche in sala. Bisogna far parlare i prodotti, la terra, le produzioni di un certo tipo.

Quali sono i prodotti che ami di più e come li trattate in cucina?

La materia che mi interessa di più è l’acqua. Se l’acqua è buona abbiamo tutto: il pesce, le colture. Io adoro il pesce poco blasonato come il pesce serra, il cefalo. E le verdure locali.
Ma mi piace tutto, se è fatto bene, se si esprime bene. In quest’espressione conta molto la modalità di cottura che ha l’obiettivo di favorire una coralità di elementi, e di creare contrasti senza che un elemento copra gli altri: tutti insieme devono viaggiare in armonia, senza sopraffazioni. Un contrasto armonico, ecco quello che conta di più.
E per ottenerlo bisogna sempre lavorare in sottrazione: non mi serve il sale se ho una sapidità che posso salvaguardare con un certo tipo di cottura, ad esempio.

Abbiamo in carta un piatto che si chiama “Quando le canoce fa la sauna”: canoce (cicale di mare) cotte sottovuoto a bassa temperatura per qualche minuto, con mezzo cucchiaio di olio d’oliva e un solo goccio di olio di basilico… ed ecco la zuppetta fatta con la loro acqua, poi sopra della pasta soffiata per dare la nota croccante… serve il contagocce perché l’olio di basilico non deve andarci sopra… e soprattutto niente sale… e manco l’acqua, che portano in dote loro stesse.

Chi è l’artefice in cucina?

Il cuoco Samuele Silvestri è con me dall’apertura, coadiuvato in maniera empatica da Giorgio Bugin. Recentemente, complici il tempo lasciato vuoto dalla pandemia e i disastri dell’acqua alta in cucina erano rimasti funzionanti solo il forno, un’impastatrice e il frigo. E allora hanno fatto un lavoro strepitoso su lievitazioni e fermentazioni…e oggi abbiamo un pane di cui sono veramente fiero.

Giorgio Bugin

La Carta dei Vini è di tua mano. Con quali criteri l’hai costruita?

Anche per i vini vale il medesimo criterio che utilizziamo per la altre materie prime (diciamo al 90%): propongo vini di un territorio che va dal Lago di Garda fino all’Istria. E questo per una ragione semplice e irrinunciabile: devo poter raggiungere un produttore in una mezza giornata perché non voglio leggere solo le etichette, ma devo vedere le mani e il volto di chi lo fa quel vino.

Prediligo vini salubri, che non facciano male alla salute ma al tempo stesso non possono permettersi di avere dei difetti. Non ci si nasconde dietro all’etichetta “naturale” per proporre un vino che puzzi. E, dico io, siccome non ti ga dito el dotor de far el vin, falo ben!

Un vino deve essere buono, piacevole, perfetto. L’incipit della mia Carta è una frase di Joško Gravner sull’onestà come principio base nel realizzare un vino. E vale per ogni cosa.

Infine, il vino è un elemento dialogico importante. Mi piace far conoscere ai visitatori il territorio anche perché coloro che arrivano al Riviera al 90% sono stranieri…

Anche questo dovrebbe essere parte integrante del mestiere di ristoratore

Si, dovrebbe esserlo. L’anno scorso, avevamo appena aperto, dopo il lockdown e i suoi strascichi. È venuto a pranzo Etienne de Montille. E mi chiede un Blanc de blanc. Non avevo ancora del tutto completato il riassortimento della cantina, e non l’avevo, in quel momento là. Però gli ho detto “Guarda, io ti faccio provare un Blanc de noir, se non ti piace, cambiamo”. Gli ho proposto e raccontato quello di Marco Buvoli (vignaiolo dedito al pinot nero in Gambugliano sui Monti Castellari, provincia di Vicenza ndr). Si è finito la bottiglia, poi ne ha presa un’altra, e poi una terza da portarsi via. Ha voluto sapere tutto del vignaiolo, compreso l’indirizzo.
Credo che questo faccia parte del nostro mestiere.

Cenni biografici. Come nasce l’idea del Riviera?

Ho sempre avuto familiarità con la terra. Sono cresciuto tra Venezia, Bassano e Asiago. Non in una dimensione urbana classica, anzi. Per me la città era Venezia, un’urbanità diversa. Per esempio gli odori delle stagioni, a Venezia, si sentono bene.
Quel senso della materia l’ho sempre avuto… la goccia del pino mugo che stillava, sull’Altopiano o la bava del branzino appena pescato.

Ho studiato Architettura, e poi al Conservatorio. Ho cominciato prima a suonare il basso elettrico e dopo il contrabbasso. Mi son trovato a Parigi e là ho fatto il musicista per un bel po’, con un maestro d’eccezione  Francois Rabat, sono stato direttore del suo istituto e accompagnavo artisti in giro per il mondo. Poi mi sono innamorato di una critica gastronomica e scrittrice. Quando uscivamo io mi magnavo tutto e lei solo assaggiava. L’ho conquistata (non è esatto perché non si conquista mai una donna…) cucinando per lei.

Un giorno, nel 2010, mi mancava troppo l’umidità di Venezia e ho voluto tornare.
Mi hanno offerto un posto in un’orchestra importante, ma non c’era respiro.
E siccome, ogni volta che tornavo a Venezia, non sapevo dove andare a mangiare, non trovavo un posto che corrispondesse alla mia idea di un luogo dove mangiare, l’ho aperto io.
Era il 2011. E quando sei in acqua, ti conviene nuotare…

Photo credits Maffione e Stefano Caffarri



Simonetta Lorigliola

Simonetta Lorigliola, giornalista e autrice, si occupa di  cultura materiale. 
È nata e cresciuta in Friuli. Ha frequentato l’Università degli studi di Trieste, laureandosi in Filosofia. È stata Responsabile Comunicazione di Altromercato, la principale organizzazione di Commercio equo e solidale in Italia. Ha collaborato con Luigi Veronelli, nella sua rivista EV Vini, cibi, intelligenze e nel progetto Terra e libertà/critical wine. Ha vissuto in Messico, ad Acapulco, insegnando Lingua e cultura italiana. Ha diretto Konrad. Mensile di informazione critica del Friuli Venezia Giulia. Da molti anni collabora con il Seminario Veronelli per il quale è oggi Caporedattrice e Responsabile delle Attività culturali. La sua ultima pubblicazione è È un vino paesaggio (Deriveapprodi, 2018).
Foto di Jacopo Venier