di Irene Foresti

Proverbi, modi di dire e scioglilingua per le generazioni del passato erano un modo di tramandare la cultura popolare in una situazione di analfabetismo pressoché totale.

Grazie alle rime, all’ironia e altri accorgimenti simili, infatti, chiunque poteva memorizzare facilmente gli insegnamenti che gli sarebbero tornati utili nella vita di tutti i giorni.

Tuttavia va sottolineato che la maggior parte dei motti popolari non è priva di fondamento scientifico.

Essendo frutto dell’osservazione diretta di fenomeni naturali o dell’esperienza personale di alcune dinamiche antropologico-culturali, i motti rappresentano una sorta di sperimentazione sul campo, condotta per anni e non da una sola persona, bensì dall’intera collettività.

Non è un caso, dunque, se numerosi detti, soprattutto quelli riguardanti il cibo, si ritrovano tali e quali in molte zone d’Italia, semplicemente declinati in dialetti o forme diversi.

Ma quanti proverbi esistono sul cibo?

Per saperlo servirebbe un lavoro certosino e didascalico, forse d’interesse solo per studiosi del settore.

Ciò che sta alla base della vastità di questo tema, comunque, è di facile intuizione.

Il cibo permea quasi ogni aspetto delle abitudini quotidiane ed è normale che la lingua italiana fiorisca dal punto di vista lessicale-gastronomico e che i relativi dialetti siano fortemente intrisi di rimandi al cibo stesso.

Non solo: più un alimento è gradito e diffuso (storicamente e culturalmente) più viene  «nominato».

Ed eccoci, dunque, al formaggio.

Ne hanno scritto e parlato un po’ tutti: da Totò (Anche il groviera ha i buchi e non si lamenta) all’autore statunitense Clifton Fadiman (il quale definì il formaggio la corsa del latte verso l’immortalità), Italo Svevo (Il formaggio vetusto è buono, ma […] il giovanissimo ha pure i suoi pregi), Italo Calvino, Giovanni Guareschi, Friedrich Nietzsche, Jonathan Swift…

Il fatto che diversi importanti personaggi del mondo della cultura abbiano «usato» il formaggio per forgiare battute o scritti da destinare al pubblico, ci fa comprendere che si tratta di un alimento  «sentito» pressoché da tutti.

Fra proverbi e modi di dire, invece, il più conosciuto e diffuso è:

Cadere [o essere] come il cacio sui maccheroni.

È un sinonimo di Capita a fagiolo, Ci voleva proprio e di quelle espressioni utilizzate per sottolineare una fortunata coincidenza che completa o migliora una situazione.

Questo detto ha a che fare con le origini del consumo della pasta a Napoli.

I maccheroni (antico nome degli spaghetti) erano cotti per strada, conditi velocemente con del formaggio e consumati con le mani (si afferrava un ciuffo di spaghetti e lo si portava in alto sopra la testa, per poi infilarlo in bocca tutto assieme). Va da sé, dunque, che senza formaggio si sarebbe trattato solo di pasta bollita, qualcosa di incompleto.

È un motto assolutamente sovrapponibile a quello che recita Il cacio non guasta mai minestra (e simili), altra pietanza che, senza formaggio, non sarebbe stata granché, almeno considerando le brodaglie alle quali erano abituati ampi strati della popolazione di un tempo.

Insomma: il formaggio consentiva di migliorare o completare molti piatti e persino la cena stessa, almeno secondo il detto Se la cena non basta alle attese, il formaggio ne paga le spese, vale a dire che se la cena riesce male o non ci fosse nulla da portare in tavola, si può sempre contare sul formaggio.

Oggi si ricorre più facilmente a salumi e uova, ma una volta questi prodotti, nelle famiglie contadine, erano destinati alla vendita per integrare il precario bilancio familiare, e non potevano essere consumati con leggerezza. Invece, un po’ di formaggio c’era sempre, dato che in molti avevano un animale domestico lattifero sul quale contare.

La popolarità del formaggio ha generato proverbi che consigliano come o quando consumarlo.

Spesso si tratta di consigli puramente gastronomici, ogni tanto utopici, almeno per i tempi, come:

Pane fresco, vino vecchio, moglie giovane e formaggio stagionato.

A  volte dietro al suggerimento conviviale si cela un avvertimento medico.

I motti quali:

Pane cogli occhi e formaggio senz’occhi;
Pane con gli occhi e formaggio cieco;
Pan bus e furmài cius

sono la sintesi popolare di una prescrizione della Scuola Medica Salernitana: il formaggio per esser buono dovrebbe essere non troppo occhiuto di buchi larghi, non tanto vecchio, che pianga, non duro come la pietra, giallo come Lazzaro resuscitato.

Come si può notare, si parla solo dell’occhiatura del formaggio e non di altre sue caratteristiche, dunque è probabile che la cultura popolare abbia assimilato solo la necessità di consumare formaggi con occhiatura leggera e pane molto alveolato.

In passato, infatti, le occhiature non erano sempre una normale caratteristica e potevano anzi essere segno di maturazioni andate male. D’altro canto il pane con un’ampia alveolatura era una rarità: il pane alveolato è di buona lievitazione, difficile da ottenere con farine diverse dal frumentoraramente utilizzato per panificare fino a poco meno di un secolo fa.

Nel dialetto bergamasco c’è un altro colorito proverbio che consiglia quali siano le parti migliori del formaggio:

Strachì nèla rösca, formài nol mes, salàm nol cül

equivalente al meneghino

Stracchin adree al mur e formagg in mezz a la strada

ossia: la parte migliore dello stracchino è la crosta, del formaggio è la pasta e del salame è la parte terminale, il cosiddetto «culo».

L’importante, in ogni caso, era non sentirsi dire:

Ta troèret chèl del formài

ovvero troverai «quello del formaggio».

È una sorta di minaccia, diffusa in molti dialetti (ho riportato quella bergamasca) che ancora oggi si rivolge a persone arroganti o prepotenti.

Le teorie sulla sua origine si sprecano, anche in considerazione dell’ampia area di diffusione di questo detto. Il proverbio andrebbe semplicemente inteso come «prima o poi troverai qualcuno più furbo di te».

Ma il formaggio cosa c’entra?

Al netto delle varie teorie, possiamo ritenere che «chèl del formài» non possa che essere inteso come  «colui che lo produce» e/o «colui che lo vende».

In entrambi i casi si tratterebbe, o si sarebbe trattato, di persone di una certa caratura fisica o, nel caso dei commercianti, di una certa scaltrezza, dunque capaci di mettere al loro posto altezzosi ed affini, in un modo o nell’altro.

Esiste anche una compagine vernacolare che non ha a che fare con la sfera gastronomica o culturale del formaggio, bensì con il suo rilievo sulla salute.

Altri motti popolari insegnano quanto formaggio consumare:

Bisogna un savio e un matto, per tagliar il formaggio (XVI secolo);

Ogni formaggio è sano, se vien d’avara mano (XVI secolo);

Il formaggio è cibo sano se ne mangi poco e piano

Come detto, spesso una base scientifica nei proverbi c’è, tant’è che l’insegnamento sotteso a quelli citati deriva da un assunto della Scuola Medica Salernitana e può essere tradotto come «va bene mangiare il formaggio, ma senza esagerare».

Si tratta, infatti, di un alimento molto appetibile, ma a causa delle sue caratteristiche nutrizionali è necessario moderarne il consumo, da cui un savio e un matto del proverbio citato: il primo, con la sua saggezza, deve fare attenzione che il goloso (il matto) non esageri.

La boca l’è mia straca se la sa mia de aca

Ecco un altro detto (qui in bergamasco) che sottende un precetto medico.

Letteralmente vale la bocca non è stracca [stanca] se non sa di vacca [di formaggio]: il pasto non si può dire terminato se non se ne è consumato almeno un poco. È un assunto, anch’esso derivante dalla Scuola Medica Salernitana, rintracciabile in tutta Italia.

Si riteneva che il formaggio fosse utile a «sigillare» (sigillat prandia et cenas, secondo Bartolomeo Bolla, XVII secolo) lo stomaco a fine pasto per evitare nausee e fastidi vari, forse per le virtù «coagulative» del formaggio stesso: provate a lasciar raffreddare una fonduta, diventerà un mattone!

Al di là del valore scientifico di questa teoria, va sottolineato un altro aspetto: come mai alcune categorie sociali non avevano bisogno del formaggio per concludere il pasto (visto che il pasto, per loro, «era» il formaggio) mentre altre non ne potevano fare a meno come sfizio finale?
Lo approfondiremo nelle prossime puntate.

Per ora basti sapere che il consumo di formaggio era talmente trasversale, dal punto di vista sociale, da finire fra le rime del poeta forlivese Olindo Guerrini del XIX secolo:

Un delfino al mare in ripa, che fumava nella pipa, prese fuoco e si scottò; ma uno struzzo di passaggio, lo guarì con del formaggio, che sul buco ci applicò

E anche in una frase del famoso gastronomo Jean Anthelme Brillat-Savarin, nel XVIII secolo:

Un fine pasto senza formaggio è come una bella donna senza un occhio

C’era, comunque, chi lo sconsigliava del tutto, come ad esempio l’umanista inglese (di origine italiana) John Florio il quale scrisse, nel XVI secolo, che

Di carne salata, frutta, donne e formaggio, non se ne fida l’huomo saggio

A proposito di frutta, non si può parlare di formaggi e proverbi senza citarne uno dei più famosi, anch’esso rintracciabile in tutta Italia e in varie declinazioni:

Al contadino non far sapere, quanto è buono il formaggio con le pere;

Il villano venderà il podere, per mangiar cacio, pane e pere;

Caciu, pira e pani, non è cibbu di viddani

Come mai?
Lo scopriremo nella prossima puntata.

Per ora ci lasciamo con un altro motto di saggezza popolare:

L’età non è importante, a meno che tu non sia un formaggio.



Irene Foresti

Nata a Tavernola Bergamasca (BG) nel 1983, è laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari per la Ristorazione. Dopo essersi occupata della direzione di impianti della grande distribuzione food, di educazione alimentare e marketing e comunicazione dei prodotti alimentati, da alcuni anni è Direttrice Qualità e Sicurezza Alimentare di un’azienda di ristorazione collettiva che gestisce i servizi di refezione presso scuole, aziende, ospedali e case di cura.

Nel tempo libero, appassionata di lingua, storia e cultura dell’alimentazione e della cucina, ha compiuto studi e ricerche. Ha scritto Cibi, gusti e sapori, tra monti e lago (Edizioni Sebinius, 2011), Franciacorta: storia di sapori (Edizioni Sebinius, 2012), Cibo, terra e lavoro (Centro Studi Valle Imagna, 2017), Stracchini (Centro Studi Valle Imagna, 2020).