Equinoziali carciofi

Marzo, speranzoso, pazzo e inizio della primavera. Marzo è anche il mese in cui ho lasciato l’Inghilterra per l’Italia, una decisione che avrebbe diviso in due la mia vita, prima e dopo, trasformandola anche in un’altalena. Per cominciare, la mia altalena aveva un peso di 32 anni in Inghilterra da una parte e solo pochi mesi in Italia dall’altra. Ma ogni anno che passa l’equilibrio scivola leggermente.

Marzo, inoltre, dà la sensazione di essere il vero inizio dell’anno.

La nostra tartaruga ha l’idea giusta, cioè andare in letargo da novembre a fine febbraio, passare i primi di marzo svegliandosi e stiracchiandosi dolcemente, preparandosi al momento giusto momento per iniziare l’anno. Che di solito è intorno al 20, quando l’altalena del giorno e della notte è in equilibrio quasi perfetto. Marzo è anche il tempo delle gemme e dei germogli, degli agretti, degli asparagi e degli equinoziali carciofi.

Quando ho visto per la prima volta qualcuno pulire un carciofo a Roma, la prima parola che mi è venuta in mente fu severo.

E poi abile e veloce. Così veloce, in effetti, che era difficile capire esattamente cosa stesse succedendo, dove finisse il coltello e dove cominciasse la mano. Ma quello che mi ha colpito di più era la severità; il crack deciso mentre le foglie venivano tirate indietro e poi staccate, il gambo denudato come un albero dalla sua corteccia, la centrifuga che riduceva un globo foglioso delle dimensioni di un pompelmo a una pigna, una natura morta a una testa pelata. 

Mi trovavo nel mezzo del mercato del Testaccio accanto a un uomo che faceva il suo lavoro, ipnotizzata. Anche dall’audace quantità di carciofi, viola intenso e verde militare, enormi, minuscoli, globosi, a tulipano, alcuni con le curve e altri con le punte. 

E se tutto questo mi fa sembrare una turista inglese sbalordita che osserva il mercato con occhi indulgenti e rugiadosi, è perché lo ero. Se fossi nata in un altro secolo, sarebbe stato diverso. 

Mentre i parenti selvatici dei carciofi sono cresciuti in Inghilterra per migliaia di anni, i carciofi veri e propri sono arrivati in Inghilterra solo nel 1500, dopo aver viaggiato dall’Italia con gli olandesi. Come tutti i membri della famiglia delle Asteraceae e del genere Cynara, i carciofi apprezzano il sole.  

Sono anche piante resistenti e adattabili che possono prosperare fino a nord, fino alle isole che punteggiano il mare appena al largo della costa della Scozia. 

I nuovi arrivati hanno piantato radici nel suolo inglese e sono diventati un ortaggio popolare. Nel suo libro del 1629 Paradisi in Sole Paradisus Terrestris, l’erborista e farmacista inglese John Parkinson osserva che anche la donna di casa più giovane sapeva come preparare e servire i carciofi. E continuarono a essere popolari, tra tutte le classi, fino al XVIII secolo.  

Sembra che sia stato durante la Rivoluzione Industriale, la trasformazione di una società agraria e rurale in quella urbana, un tempo di crescita ma anche di abbandono delle tradizioni, che i carciofi scomparvero quasi completamente dai giardini e dalle tavole. 

Secondo la food writer Sheila Hutchins sono riapparsi in Inghilterra negli anni Sessanta del Novecento, importati dall’Italia e dalla Francia poi venduti nei negozi di frutta e verdura come ortaggi esotici, belli e difficili.

Ricordo di aver acquistato un solo carciofo da un fruttivendolo quando ero ventenne, portandolo a casa come un premio, emozionata ma non proprio sicura di cosa ne avrei fatto.  

Persino il mio ricettario sembrava intimidito dalla sua armatura a petali, sottolineando che la pulizia era “molto difficile” e suggerendo che il modo migliore per farlo fosse un metodo francese, che è quello di evitare del tutto di tagliarlo e semplicemente bollirlo intero come una ninfea. 

Che è esattamente quello che ho fatto, poi l’ho mangiato foglia per foglia, facendole scorrere nella vinaigrette prima di usare i denti inferiori per raschiare via la parte carnosa, tirando e raschiando, fino a raggiungere il cuore. 

Deve essere stato più o meno lo stesso periodo in cui ho comprato per la prima volta l’altro estremo, cuori di carciofo in barattolo, dischi volanti sospesi in uno spazio oleoso o esemplari di un laboratorio scientifico, anche se di sapore migliore. Ninfea o disco volante, entrambi buoni, ma sicuramente c’era qualcosa in mezzo? 

Trascorsi 10 anni, venne quel primo giorno al mercato, carciofi dappertutto e un uomo capace di pulirne uno in 10 secondi.  Fu solo più tardi, quello stesso giorno, in una trattoria, mentre mi facevo strada tra un Carciofo alla Giudia e la morbidezza di un Carciofo alla romana, che l’ingegnosità della testa pelata finalmente ebbe un senso. Era quel qualcosa di mezzo, l’equilibrio del carciofo. Era anche solo l’inizio, avevo un universo di piatti da assaggiare, tagli da padroneggiare, cliché di carciofi da scrivere. 

E ora siamo nel 2021, il mio sedicesimo Marzo a Roma, dopo un anno diverso da tutti gli altri, follia e speranza, non tanto in altalena, ma in lotta tra di loro. 

Ma la primavera avanza e ci sono i carciofi.

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Foto Archivio SV

Rachel Roddy

Rachel Roddy è nata a Southampton nel 1972 ed è cresciuta a Londra. Formatasi come attrice, si è trasferita a Roma nel 2005 dove ha iniziato a scrivere, soprattutto di cibo. Il suo primo libro, Five Quarters, del 2015, ha vinto l’André Simon Food Book Award e il The Guild of Foodwriters First Book Award. Il suo secondo libro Two Kitchens è uscito 2017. Ha scritto per The Financial Times, Vanity Fair, National Geographic, Eater, Noble Rot e Internazionale. Ha una rubrica settimanale su The Guardian dal titolo A Kitchen in Rome. Vive a Roma con il suo compagno, siciliano, e il loro figlio.