Consegna a domicilio o Food delivery. Che sarebbe poi una scatola con cibo pronto, consegnato a casa, portato in tavola.

È uno, l’ennesimo, tentacolo di quella piovra che è l’epicentro culinario di una città.

Una sola cucina moltiplicata per mille, invisibile e onnipresente, che parla una lingua, l’inglese, nei supermarket, nei catering, nei fast food, negli home restaurant con macchine e macchinine che programmano, lavorano, confezionano e servizi digitali, meccanici, umani che distribuiscono. Food delivery è la rivelazione, una delle tante, di un contratto fra il singolo consumatore e la piovra, la cucina urbana.

L’abitudine di farsi da mangiare in casa si restringe come lo spazio delle nostre cucine, e scatta una dipendenza da surgelato, da microonde, da tutto pronto, che rende desueta la Scienza in cucina di Artusi. A casa propria o fuori non importa, il passo successivo, immediato è fingere di ignorare il processo e attenersi al suo esito, mordendo italiano, un panino, una pizza, dei maccheroni. 

Facile farsi imboccare, in tanti modi, sempre più difficile conoscerne l’antefatto, risalendo con l’immaginazione al punto d’inizio.

In un anno questo quadro si è precisato ed esteso.

La consegna a domicilio riguarda non solo l’industria ma l’artigianato e il commercio.

Bar, pasticcerie, ristoranti, anche con stelle, sono stati chiusi per legge e il telefonino ne riattiva la funzione, li fa vivere a piatti e bocconi, con un ciclista che prende e consegna il pacco.

Cosa c’è dentro? di tutto: una pizza, espressa in venti ricette tutte intiepidite, o un piatto d’autore, un cocktail di gamberi.

Il ristorante è cancellato e con esso la sala, il servizio, i piatti e soprattutto la convivialità.

Si cucina per l’asporto e tutto viene inscatolato, ma a dominare il servizio a casa è la comunicazione, dal principio, lettura del menu e ordini, alla fine, con uno squillo di citofono o l’ultima telefonata di chi consegna che è poi un cameriere in bici o in moto.

La cucina industriale, tentacolare sembrerebbe dimenticata, di fronte ad un ristorante chiuso, eppur vivo e capace di nutrire, con una eventuale apertura che permette al cliente di prendersi solo la scatola, senza posate.

A casa poi, in famiglia, si scimmiotterà l’evento, come se il ristorante fosse risuscitato, mentre invece è morto e sopravvive riformulando ogni singolo piatto che piatto in tavola, appunto, più non è, o lo diventa in un secondo momento.

Immaginiamo dunque una città in cui tutto è definitivamente chiuso e consegnato a domicilio.

Sembra di vivere una seconda vita in cui la rete telematica crea ogni desiderio, ogni appetito, e lo soddisfa a condizione che esso sia espresso individualmente, senza compresenti, eccetto i conviventi o i famigliari.

Come ci nutriremo?

Con google, glùglù, e con la delivery, in un inglese bastardo, a bassa temperatura, e con la consapevolezza di non esserci, là, mangiando.

Colpa del virus?

Per nulla. Stiamo studiando la cucina policentrica e globale, ed è una occasione preziosa. Certo, c’è chi vuol far da sé, e cucinare in casa, ma che avvenire può avere una cucina di casa coatta, in cui la ricetta è consentita per legge, per legge di mercato?

LEGGI IL “LECCA LECCA” DI MARZO


Alberto Capatti

Alberto Capatti

Nato a Como il 2 novembre 1944, è uno tra i principali storici della gastronomia italiana e da molti anni si occupa di storia dell’alimentazione e di cultura materiale.
Ha diretto, dal 1984 al 1989, “La Gola. Mensile del cibo, del vino e delle tecniche di vita materiale” in cui prendeva forma di rivista un poderoso e inedito mix arte, letteratura, design, cucina, antropologia, grafica… che uscì in edicola dal 1984 e il 1991.
Capatti è stato direttore scientifico del Comitato Decennale Luigi Veronelli.
È stato membro del Comitato direttivo dell’Institut Européen d’Histoire de l’Alimentation (dal 2005 al 2012).
È stato il primo rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, e direttore di “Slow”, rivista di Slow Food dal 1994 al 2004.
Nel 2001 ha curato, con la direttrice della Bibliothèque de l’Arsenal la mostra «Livres en bouche» presso la Bibliothèque Nationale de France.
Fa parte del Comitato scientifico di CasArtusi.
Dal febbraio 2018 è presidente della Fondazione Gualtiero Marchesi.