A 16 anni dalla sua scomparsa, ricordiamo Veronelli con un’intervista a Maurizio Zanella, fondatore e presidente di Ca’ del Bosco, e tra i fondatori del Seminario Veronelli

di Simonetta Lorigliola

Da sinistra: Giacomo Bologna , Luigi Veronelli, Guido Orsi, Maurizio Zanella

Zanella, Veronelli, Bologna. Una triade che sinergicamente ha ribaltato il mondo del vino in Italia. Tre persone legate dall’amicizia, nata da un interesse sincero e appassionato per la massima qualità enoica. I tre girano il mondo, enologico e non, assieme. Si confrontano, discutono, elaborano. In parte, lo cambiano.

Veronelli è mentore di entrambi. Ma è sodale e vicino, mai su presuntuosa cattedra. L’idea fissa è: cambiare. Riabilitare il vino come prodotto culturale d’eccellenza.
Un assunto attuale e futuribile.

Ne parliamo con Maurizio Zanella.

All’avvio del suo progetto di realizzare grandi spumanti, quali erano gli obiettivi e quali i sogni?

Voglio fare una premessa. Ca’ del Bosco non sarebbe stata Ca’ del Bosco senza Veronelli. E questo non vale solo per noi ma forse per metà dell’enologia italiana.

Allora io ero molto giovane non avevo idea di cosa fossero cultura e tradizione enologica, avevo solo una gran passione.

Dopo aver visto la Borgogna e la Champagne ho pensato che qui potevamo fare come loro, e forse anche meglio. Non che potessimo fare gli stessi vini. Piuttosto pensavo alla cura, alla tradizione, all’attenzione. Potevamo averle anche qui, ma era tutto da costruire. In Italia imperava la religione della quantità.

La situazione era drammatica in termini qualitativi nel nostro paese, anche se io questo, allora, così chiaramente non lo sapevo, non lo percepivo.

Avevo questo sogno di riproporre in Italia il modello di qualità francese.
Ma, si sa, che tra il dire il fare c’è di mezzo il mare.
E di mezzo, per fortuna, c’era Veronelli. 

Qual è stato il suggerimento di Veronelli?

Quando io lo incontro, lui mi prende sotto la sua ala. Mi ha dato quella cultura e quella visione che mi mancavano. Poi mi ha fatto anche conoscere persone che mi hanno aiutato, nel percorso di realizzare il mio sogno.

Come era visto, nell’Italia enologica di allora, il suo sogno?

Sostanzialmente tutti pensavano fosse follia pura.

Le persone che avevo incontrato, agronomi ed enologi, dicevano che in Italia non si poteva fare, non si poteva applicare il modello qualitativo francese, era un’idea balzana che non stava in piedi.

L’unica persona che mi sostenne in termini di pensiero è stato Veronelli.

Mi ha dato il turbo.

Vi frequentavate spesso?

Lui non guidava e io sono praticamente diventato il suo autista, o meglio, il suo compagno nei numerosi viaggi. Spesso c’era anche Giacomo Bologna, eravamo sempre in giro insieme.

Veronelli ci ha coinvolto nella sua rete di conoscenze, abbiamo partecipato al suo innovativo progetto, la VIDE (Viticoltori Italiani d’Eccellenza). Parlare di viticoltura in quel modo, nell’Italia di allora era avveniristico. Infatti il progetto non durò a lungo, purtroppo.

Ma poi fondammo il Seminario Veronelli. Con l’obiettivo di diffondere la cultura del vino, l’importanza dell’aspetto qualitativo. Sia Giacomo Bologna che io siamo stati con Veronelli anche in quel percorso. Lui era la benzina che metteva in moto la macchina.
Ma non era facile.
Davanti aveva salite interminabili: la burocrazia e la mentalità comune nel settore, molto difficili da cambiare.

Com’era l’Italia enologica in quegli anni Settanta quando Ca’ del Bosco iniziava la sua attività? 

Non c’era cultura del vino. O, meglio, era andata dispersa.

In Italia non c’erano più impianti fitti, per esempio. 

Gli ultimi alberelli fitti stavano scomparendo anche quelli, nel Sud Italia. Negli anni Settanta imperava la produttività. Questo, naturalmente, era il frutto della scuola e della formazione. Insegnavano quello, agli agronomi.

Tutto doveva essere spinto al massimo, meccanizzato, per abbassare i costi e vendere a poco prezzo l’uva a chi poi, in grandi strutture, si sarebbe occupato di fare il vino.

Era tutto orientato alla quantità. E gli agronomi lo predicavano perché erano stati formati su quel modello.
Questo ha via via portato a distruggere l’Italia enologica.
C’era il buio totale sul settore.

Sarebbe stato paralizzante per chiunque avesse voluto provare ad esprimere un’idea diversa di fare vino, soprattutto se si trattava di un giovane. E io ero molto giovane. Ma Veronelli mi ha aperto la mente.

Essendo lui anarchico diceva sinceramente e apertamente quello che pensava del sistema vitivinicolo italiano di allora. E lo criticava duramente.

E così io ho trovato la motivazione per proseguire. Il primo vigneto l’ho impiantato con 10.000 piante per ettaro. Erano impianti così fitti che non mi avevano ammesso nella DOC.

Il culmine dei nostri ragionamenti sulla possibilità di un’Italia enologica diversa fu un viaggio in California. Veronelli, con me, Giacomo Bologna e Mario Schioppetto.

Andammo in Napa Valley. Là capimmo chiaramente che il modello francese era trasferibile, mentre in Italia continuavano a dire che non era possibile, nemmeno lontanamente, pensare di importarlo. Ma se funzionava in un paese che non aveva la minima tradizione e cultura del vino, figuriamoci se non si poteva fare in Italia!

Entrammo in contatto coi grandi della Napa Valley come Robert Mondavi, Venivano in Italia a trovarci, e mi davano degli utili suggerimenti.

Tutto questo senza Veronelli non sarebbe stato possibile e Ca’ del Bosco non esisterebbe.

Qual è oggi la relazione tra natura e tecnologia a Ca’ del Bosco? 

Ca’ del Bosco oggi è composta da diverse persone di grande valore. Naturalmente siamo concordi e allineati, ma su certe cose il pensiero percorre una sua strada.

Posso dire che Zanella pensa che non esista il vino naturale, perché la naturalità significa che non c’è intervento dell’uomo. Ma una pianta non potata, dopo sei o sette anni non fa più uva. E anche la vinificazione, senza l’intervento umano, all’80% produce aceto e non vino.

L’intervento dell’uomo è fondamentale.

Poi il fatto di dover impegnarsi al massimo del possibile per salvaguardare l’ambiente è oggi centrale in viticoltura e in agricoltura.
Come uomini, siamo i custodi dei nostri territori; dobbiamo coltivarli e preservarli, mai consumarli.
Oggi avere un basso impatto ambientale è imperativo.

Noi abbiamo deciso di farci certificare come bio, ma non lo scriviamo ancora in etichetta, anche se l’informazione è presente sul sito web, ora, dopo tre anni dalla certificazione. Abbiamo tardato perché raccontarlo apertamente può sempre sembrare che lo si voglia utilizzare come leva di marketing, quando invece il biologico si fa per ben altro, si fa per la conservazione ambientale.

Maurizio Zanella

La vostra scelta per il biologico è una scelta etica, un atto di responsabilità verso le generazioni future o anche altro? E in quale relazione sta con la qualità del prodotto finale?

Il nostro obiettivo è custodire e valorizzare il territorio che è il bene più importante che abbiamo: è un discorso economico, non poetico o eroico. Cosa vale di più in agricoltura? È la terra! E quella io devo difenderla, se investo sulla terra devo proteggerla, è il mio bene e io ho il dovere di custodirla e valorizzarla.

La scelta di essere bio è un passo verso la difesa del territorio e non per fare un prodotto migliore. In termini scientifici la sicurezza nelle annate problematiche te la dà solo il convenzionale. Il saldo è leggermente inferiore per il biologico, ma le motivazioni vere per utilizzarlo sono altre e superiori: si fa per difendere il territorio e la vigna.

La vigna non si deve mungere. Bisogna pensare al futuro.

A questo approccio si aggiunge la tecnologia che vuol dire innovazione.

Ca’ del Bosco – “Il testimone” di Mimmo Palladino – Foto M. Listri

L’uomo è un essere pensante e deve saper valorizzare quel che la natura gli dà. E la si valorizza investendo in creatività e in quella tecnologia che integra il lavoro dell’uomo per la terra.

Come si fa?

Non entrando nel prodotto e variandone le caratteristiche. ma valorizzandole al loro massimo. L’esempio più eclatante è quello di lavare e asciugare l’uva. L’acqua nell’enologia italiana voleva dire frode, era blasfemo parlare di acqua. Ci prendevano in giro. Ora non è più così. 

Noi ci siamo chiesti “Ma se si lavano le olive e tutta la frutta, perché non si deve lavare l’uva?”.

E così lo abbiamo fatto. Laviamo l’uva. Perché i residui sulla buccia sono un elemento negativo, in termini aromatici.

Adottando la pratica del biologico succedeva che, se pioveva troppo potevano esserci le muffe e se non pioveva, ci portavano il rame in cantina, che faceva lavorare meno i lieviti e in termini aromatici (non di gusto) si perdeva qualcosa. Come togliere i residui? Lavando l’uva. 

L’innovazione è la tradizione di domani, fatta con intelligenza senza però usare le porcherie che cambiano le carte in tavola e modificano il prodotto.

Remuage – Ca’ del Bosco

Come è la situazione oggi a Ca’ del Bosco, guardando anche alla relazione ormai consolidata con il Gruppo Santa Margherita?

Nel 1994 Marzotto entra in Ca’ del Bosco. Un bel matrimonio, tutto sommato, fortemente voluto da mio padre che è sempre stato artefice di decisioni apparentemente folli ma giuste.

Diversamente Ca’ del Bosco sarebbe rimasta una cosa molto piccola e con prospettive ridotte. Non avevamo abbastanza risorse. Per esempio chi avrebbe avuto il coraggio di investire, e si tratta di un investimento importante, nella tecnologia per il lavaggio dell’uva?

Mio padre sapeva che io volavo alto e avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a restare ancorato a terra.

Ca’ del Bosco – La Sughera – Foto G. La Spada

Quanto contano le relazioni sul territorio?

Nella fase produttiva il territorio è fondamentale. Una zona deve avere coscienza di sé, altrimenti non vale niente. E un produttore solo, anche se d’eccellenza, non farebbe niente senza un contesto che abbia coscienza del proprio valore nel suo complesso perché, banalmente, una rondine non fa primavera

Quindi il confronto e la partecipazione nella propria zona produttiva sono indispensabili.

Prima di valorizzare un’azienda, va valorizzata una denominazione: le fondamenta devono essere solide sennò tutto crolla. E la denominazione rappresenta queste fondamenta. Si deve partecipare attivamente e sopratutto in una zona come l’Italia dove l’enologia di qualità non arriva ancora dappertutto.

Ca’ del Bosco – “Blue Guardians” di Cracking Art – Foto M. Listri

Cosa pensa del mondo che racconta il vino oggi?

Non mi faccia parlare. È un mondo arido.

Prima di tutto per la crisi degli strumenti di comunicazione: le riviste sono sempre meno lette e la rete propone a tutti di tutto, ma i bravi e i preparati sono una stretta minoranza.

Infine e soprattutto, vedo che sono mancanti la cultura, la serietà, l’amore e la passione, che dovrebbero funzionare sempre tutti insieme. E qui, torniamo a Veronelli…

Approfondimenti

Seminario Veronelli : l’Associazione

Luigi Veronelli

Ca’ del Bosco


Simonetta Lorigliola

Simonetta Lorigliola, giornalista e autrice, si occupa di  cultura materiale. 
È nata e cresciuta in Friuli. Ha frequentato l’Università degli studi di Trieste, laureandosi in Filosofia. È stata Responsabile Comunicazione di Altromercato, la principale organizzazione di Commercio equo e solidale in Italia. Ha collaborato con Luigi Veronelli, nella sua rivista EV Vini, cibi, intelligenze e nel progetto Terra e libertà/critical wine. Ha vissuto in Messico, ad Acapulco, insegnando Lingua e cultura italiana. Ha diretto Konrad. Mensile di informazione critica del Friuli Venezia Giulia. Da molti anni collabora con il Seminario Veronelli per il quale è oggi Responsabile delle Attività culturali. La sua ultima pubblicazione è È un vino paesaggio (Deriveapprodi, 2018).
Foto di Jacopo Venier