L’ASSAGGIO

Barolo Cerretta 2015

Schiavenza | Serralunga d’Alba CN

di Marco Magnoli

Nella sua smania di infinito l’uomo si volge spesso al mare, tabula perennemente rasa che tutto sembra concedere all’immaginazione.
Il mare, tuttavia, ha un che di arido; si atteggia ad infinito «in atto», inconcepibile immagine di ciò che è solo un costante, ossessivo indefinito; un’illusione di illimitata libertà che ci confonde, in realtà, col susseguirsi di moti e onde sempre uguali, biancheggianti della medesima spuma, privi di distintiva identità.

Infinito da scoprire

La terra è, invece, un fecondo infinito «in potenza».
Alle spalle della costa c’è sempre l’entroterra e l’entroterra è un susseguirsi di pianure, colline e montagne che ci donano l’ebbrezza ispiratrice dell’ignoto che sta al di là. 
Giunti sulla vetta, si scorge un’altra montagna e dietro ad essa il gioco ricomincia, rassicurante, all’infinito: altre montagne, colline, pianure, forse persino altri mari da provare finalmente ad attraversare, uno alla volta. Mari che, in qualche caso, rinunciano pur essi all’indistinto per farsi terra fertile.

Serralunga d’Alba

Una terra che era mare

Un tempo, le Langhe erano un mare. Un mare che si è ritirato lasciando emergere le colline che ora alimentano i nostri sogni e desideri, svelandoci dietro ad ogni bricco un nuovo bricco, un nuovo scorcio, un nuovo paesaggio nel quale leggere e dare forma ad attese e suggestioni.
Bricchi sempre diversi, vigneti sempre diversi, vini sempre diversi. E uomini che di tali diversità si rivelano straordinari interpreti, filtrandole e forgiandole attraverso le maglie delle loro personali storie, delle loro vite.

Giulia Colbert e l’Albese

Un tempo, gran parte dei terreni dell’Albese, e con essi numerosi vigneti, appartenevano all’Opera Pia Barolo, istituzione di assistenza e beneficienza fondata nel 1864 per volontà di Giulia Colbert di Maleuvrier, moglie di Tancredi Falletti marchese di Barolo. I campi erano coltivati da una schiera di mezzadri, molti dei quali sarebbero in seguito divenuti proprietari di alcune particelle di terreno da cui prese vita più d’una delle aziende tuttora attive nelle Langhe.

Perché «Schiavenza»?

Nel dialetto locale questi lavoratori erano chiamati «schiavenza», un nome evocativo che i fratelli Ugo e Vittorio Alessandria scelsero per la loro azienda viticola, fondata a Serralunga d’Alba nel 1956 proprio riunendo alcuni appezzamenti vitati già proprietà dell’Opera Pia.
L’azienda è ora una solida realtà nel variegato panorama del Barolo, gestita dai generi di uno dei fondatori, Walter Anselma e Luciano Pira, quest’ultimo agronomo, cantiniere e vera anima di Schiavenza.

Castello di Serralunga d’Alba

Serralunga e la sua geologia

Serralunga è un autentico  «santuario» del Barolo, famosa per l’estrema forza e robustezza con cui si esprime il suo nebbiolo. Eppure, come accade spesso nelle terre del Barolo, nemmeno il territorio di questo piccolo comune è del tutto omogeneo. Può, allora, capitare che, scavalcando bricchi e colline, si incappi in un cru come Cerretta, dove la geologia non parla la lingua dell’Unità di Paesaggio che da Serralunga prende il nome, ma piuttosto quella dell’Unità di Castiglione Falletto; non formazioni di Lequio, quindi, emerse nell’antico Langhiano, bensì arenarie di Diano, sfuggite al mare appena più di recente, in Età serravalliana.

Luciano Pira – Schiavenza

La trama di un Barolo

Da questo cru è nato il Barolo Cerretta 2015 di Schiavenza, un vino intenso ed armonioso, ornato da una speziatura dall’elegante accento balsamico, che trova conforto nella calda nota di camino e in un raffinato richiamo floreale, tra la dolce rosa e la più fresca violetta.
Sono, però, i tannini a rifinire con precisione il profilo di ogni Barolo, tanto più consistenti quanto più antichi, compatti e sedimentati risultano i suoli dei suoi vigneti.
Per potenza e vigore, i tannini di Cerretta dovrebbero, dunque, porsi appena un gradino sotto a quelli dei vini nati sulle formazioni di Lequio, ma anche le arenarie di Diano sanno come serrare ben strette e solide le fila tanniche del nebbiolo, intrecciando una trama dall’incedere fitto e incisivo, eppure preciso, intonato, calibrato con tale minuzia da tradursi in un’ampiezza di definizione che certo deve molto al talento e alla sensibilità di Luciano Pira, la cui coerenza stilistica e sicurezza tecnica ne fanno uno dei più validi interpreti del moderno Barolo.

Un vino e la ricerca dell’infinito

E ancora una volta, nell’ininterrotto racconto nel quale si dibatte la nostra esistenza, un vino pare un poco rinfrancarci, mostrandoci le sue sottili singolarità e consentendoci, così, di raffigurare a noi stessi con distinzione i dettagli del composito universo celato dietro ogni collina; nascosto dietro la prossima collina. Dettagli spesso minimi, appena accennati, quasi sussurrati, ma tutti densi di un significato essenziale, ciascuno tessera di un mosaico che pian piano, annata dopo annata, va a comporre un prezioso lembo di infinito. Infinitamente.


MARCO MAGNOLI

Deve alla tradizione familiare la passione per i vini di qualità e a Luigi Veronelli, incontrato nel 2001, l’incoraggiamento a occuparsi di critica enologica. Dal 2003 è collaboratore del Seminario Permanente Luigi Veronelli. È tra i curatori della Guida Oro I Vini di Veronelli.