A Torino lo promossero le donne, protagoniste della Resistenza

di Marcello Flores*


Un brindisi in piazza (sarà stata una Barbera? un Dolcetto? Chissà!) tra sorrisi e dialogo. A partire da un’immagine scattata il 25 aprile 1945, lo storico Marcello Flores ha scritto per noi e per i nostri Lettori una riflessione critica inedita sulla Resistenza, evidenziando l’apporto delle donne a quel movimento che contribuì ad avviare una storia nuova per il nostro Paese.

Si brinda in piazza durante la liberazione di Torino, 25 aprile 1945


Sembra una festa popolare, e in qualche misura lo è.

E a essere protagoniste sono le donne, come soltanto adesso, a 75 anni di distanza ci rendiamo finalmente conto. 

La festa è quella della Liberazione, del 25 aprile 1945 quando le principali città del nord dettero vita all’insurrezione finale contro il nazifascismo, lanciata dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e condotta con coraggio, audacia e tempestività da tutte le brigate partigiane, di qualsiasi grandezza, di ogni colore politico e capacità militare. 

Quando la Resistenza era iniziata, dopo l’8 settembre 1943, nessuno sapeva quanto sarebbe durata, ma tutti erano certi di quali risultati avrebbe dovuto raggiungere: la libertà, la democrazia, la sconfitta del nazismo e l’affossamento definitivo del fascismo che per vent’anni aveva incancrenito la vita pubblica in Italia. 

E infatti fu grazie alla Liberazione – capace di anticipare anche militarmente l’arrivo degli Alleati, ma senza i quali non ci sarebbe stata nessuna vera liberazione, come erano consapevoli tutti i partigiani, dal primo (Ferruccio Parri “Maurizio”) all’ultimo giovanissimo aggregatosi nei giorni di aprile – che in poco tempo l’Italia riuscì non solo a riconquistare la libertà, ma a costruire una democrazia come mai era prima esistita nel nostro paese. 

La prima volta in cui votarono le donne

Grazie anche alla Resistenza l’Italia diventa una Repubblica e, nel giorno in cui con referendum sancisce la sconfitta della monarchia e il suo definitivo allontanamento dalla vita della nazione, elegge un’Assemblea Costituente che sarà l’architrave della nuova democrazia: una democrazia parlamentare eletta, per la prima volta, a suffragio universale, che si doterà presto di una Costituzione – anche qui, la prima, vera costituzione nel senso compiuto e moderno del termine – tra le più avanzate del mondo e in sintonia con i grandi organismi sovranazionali e i grandi manifesti di diritti e valori che danno inizio a una fase nuova della storia mondiale (le Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti umani).

Le donne, che potranno votare per la prima volta in Italia proprio nelle elezioni per l’Assemblea Costituente e per il referendum Repubblica/monarchia del 2 giugno 1946, avevano ogni motivo per festeggiare – con quei sorrisi semplici e profondi che ci trasmette la fotografia – la fine della guerra e l’avvenuta Liberazione. 

Sapevano che per loro sarebbe terminato l’ostracismo politico da cui nemmeno l’Unità d’Italia aveva voluto sottrarle, cui l’avevano obbligate un regime liberale profondamente e stupidamente «maschile» e vent’anni di fascismo che aveva cercato con ogni mezzo di relegare la donna nella posizione subordinata di fattrice di giovani maschi destinati a morire per la patria, illudendola che la sua figura di «angelo del focolare» potesse risarcirla della sottomissione (politica e familiare, pubblica e privata) cui era costretta, dell’emarginazione e dell’esclusione anche quando veniva economicamente sfruttata come lavoratrice in tanti settori, senza diritti e senza alcun riconoscimento del suo essere «persona».

Le combattenti e le civili

Proprio per questo le donne avevano partecipato in modo ampio alla Resistenza, in numero ben maggiore di quelle che – poche ma coraggiose, capaci in qualche caso di assurgere al comando di brigate e distaccamenti – vennero riconosciute come tali perché avevano imbracciato le armi. 

Per troppo tempo, infatti, Resistenza è stato sinonimo soltanto di resistenza armata, dimenticando le molteplici forme di resistenza (civile, ma spesso pericolosa quanto e più di quella armata) senza le quali nemmeno quella combattuta con le armi avrebbe avuto possibilità di successo, o sarebbe riuscita a raggiungere quel grado di importanza politica e sociale che, anche agli occhi degli Alleati, fu fondamentale per poter rimettere l’Italia nel dopoguerra nel novero della grandi nazioni democratiche.

Di queste diverse resistenze le donne in molti casi sono state protagoniste assolute, anche in termini numerici. 

Non solo “staffette”

Il modo con cui per molto tempo, nel dopoguerra, si è riconosciuto loro di avere partecipato alla Resistenza, è stato quello di ricordarle come «staffette», come semplici agenti di trasmissione di ordini e informazione da un gruppo all’altro dei «veri» resistenti. Non fu così, e basterà ricordare le tante «staffette» arrestate e uccise, sempre dopo torture lunghe e indicibili, quelle deportate e spesso uccise nei campi di concentramento, quelle fucilate sul posto o prese a casa perché accusate – da vigliacchi delatori – di essere ostili al fascismo e di voler aiutare in qualche modo la battaglia contro l’occupante nazista. 

Ma le donne furono anche il tramite principale, e il più importante, che permise che i gruppi armati potessero trovare e mantenere un rapporto di fiducia con le popolazioni locali, delle montagne e delle vallate dove le bande partigiane si erano costituite e continuavano a nascondersi per colpire il nemico ogni volta che fosse possibile. 

Le donne furono le prime, più numerose e più efficaci nel permettere ai prigionieri di guerra alleati, angloamericani, di fuggire e di raggiungere la Svizzera o i luoghi di combattimento vicini ai propri eserciti che avanzavano o accanto a gruppi partigiani per portar loro l’aiuto della propria esperienza.

Furono le regine della «logistica», per usare un termine moderno, e cioè della capacità di approntare rifugi per chi si nascondeva, passaggi sicuri per chi doveva abbandonare il territorio controllato dai nazifascisti, raccogliere e portare a chi ne aveva bisogno vettovagliamenti e vestiario per i periodi più freddi e difficili dei venti mesi di lotta. 

Bologna 25 aprile 1945


Partigiane e mondo contadino

Le relazioni tra partigiani e mondo circostante, soprattutto il mondo contadino e dei villaggi, non sono state sempre idilliache come per troppo tempo una retorica resistenziale deleteria ha voluto raccontare. È stato spesso un rapporto pieno di contraddizioni e contrasti, frizioni e divergenze, soprattutto quando il timore (e, a un certo punto, la certezza) di rappresaglie contro la popolazione civile, rendeva più difficile aiutare apertamente la guerriglia partigiana e farsi coinvolgere nella lotta contro il nazifascismo. 

Proprio in questa realtà, tuttavia, le donne sono state cruciali nell’evitare – quasi sempre – che si giungesse a rotture irreparabili ma che si trovasse una modalità di convivenza tra le esigenze di sicurezza della popolazione e le necessità della guerra dei partigiani.

Nei giorni successivi alla Liberazione, quando le brigate sfilarono lungo le città liberate per festeggiare la libertà ritrovata, in molti casi fu impedito alle partigiane – quelle che avevano combattuto armi alla mano – di essere presenti, perché si temeva che il pregiudizio antifemminile coltivato durante il fascismo e presente anche, sia pur diversamente, in due grandi culture dei partiti antifascisti (quello democristiano e quello comunista), potesse dare adito ad accuse alla Resistenza nel suo insieme. 

Alcune sfilarono, la maggior parte no. 

Proprio per questo l’immagine sorridente e festante di questa foto ci sembra riassuma nel modo migliore quella voglia di libertà cui le donne – nel corso della Resistenza – avevano dato un contributo formidabile e indimenticabile.

Consigli per letture e visioni – dalla Redazione

Storia della Resistenza
di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli
(Laterza, 2019)

Libere
Film documentario sulla Resistenza e le donne
di Rossella Schillaci con la collaborazione di Paola Olivetti,
uscito nel 2017 e distribuito da Lab80


*Marcello Flores

Marcello Flores è tra i maggiori storici contemporanei. Ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Trieste e poi all’Università di Siena dove ha diretto il Master in Human Rights Genocide Studies. È tra i principali studiosi internazionali della storia dei partiti e dei movimenti politici. Si è occupato a lungo delle esperienze comuniste nei paesi dell’Est Europa. Recente la pubblicazione di Storia della Resistenza (con M. Franzinelli, Laterza, 2019). Tra i suoi ultimi libri ricordiamo La forza del mito. La rivoluzione russa e il miraggio del socialismo (Feltrinelli, 2017) e 1968. Un anno spartiacque (con G. Gozzini, Il Mulino, 2018).