Alcuni suggerimenti dall’antica Grecia

di Pietro Stara*

HORS-D’OEUVRE curiosità dalla storia
Una piccola rubrica «fuori opera». Il termine hors d’oeuvre nacque in ambito edilizio, per indicare le parti accessorie e non necessarie di una costruzione. Traslate successivamente in ambito culinario, le hors d’oeuvre comparvero per la prima volta nel 1714 come piatti che precedevano il pasto principale e prima delle entrée, i veri e propri antipasti, con cui vennero successivamente confuse. La loro funzione era quella di stimolare l’appetito, così come cercherà di fare questa rubrica: curiosità storiche in ambito culinario e vitivinicolo che incoraggino l’approfondimento e la sperimentazione.


La “giusta misura”, forse.

La questione della misura, della giusta misura s’intende, è antica almeno quanto la nobile storia del vino e di tutte le bevande a fermentazione alcolica. Non pensate di risolverla facilmente, semplicemente aggiungendo, come l’acqua in un cratere di vino, l’aggettivo «giusto» al sostituto nominale «mezzo», intendendo con esso sia la linea di equilibrio che quella di confine: qualcuno potrebbe prendervi in disparte e discutere, a lungo, della nozione di giustizia, di quella di bilico e del bene in sé, del bene per voi stessi e, più in largo, del bene per il genere umano.

E non fidatevi neppure delle sentenze esemplificartici, di quelle che, con un colpo di parole, piazzano dilemmi che vengono risolti allo stesso livello di conoscenza di chi li ha creati: «in medio stat virtus» scrissero gli scolastici nel Medioevo nel tentativo di arrangiare l’Etica Nicomachea (1106a 26-1106b 359) di Aristotele. Ma lo stesso Stagirita era a modo suo convinto di almeno due cose.

Primo: «Che la virtù è una sorta di medietà perché tende al mezzo».
Tendere è l’atto di protrarsi in avanti finalizzato al raggiungimento di uno scopo e non il suo necessario raggiungimento.

Secondo: «Così pertanto ogni persona che ha conoscenza fugge l’eccesso e il difetto; invece è il giusto mezzo che cerca ed è questo che sceglie: il mezzo non dell’oggetto, ma in rapporto a noi».

La differenza è talmente chiara da costringerci a spostare l’intero problema su di noi sia come individui che come collettività. 


Alcuni sobri consigli che provengono dall’antichità

Foto A. Stara


Teogonide

Voglio qui riportarvi la prima delle due raccomandazioni: a lasciarla ai posteri ci pensò Teogonide (visse tra il VI e il V sec. a.C.), nobile di Megara Nisea spodestato, con l’avvento della democrazia, di tutti suoi averi e costretto a peregrinare in esilio dapprima in Eubea e poi a Sparta, in Sicilia dove ebbe la cittadinanza di Megara Iblea. Assieme a Esiodo, Focilide, Pitagora, Senofane e Solone, Teogonide era un cultore della poesia gnomica, la cui peculiarità consisteva nell’evidenziare, in tutta autonomia, l’espressione di una sentenza moralistica (in greco γνώμη, da cui il nome) conclusiva, esaustiva e finalmente risolutiva.

«E se qualcuno, ubriaco fradicio, è stato vinto da un dolce sonno tu non lo svegliare, o Simonide, ma non imporre di addormentarsi contro voglia a chi è rimasto sveglio: ogni costrizione, si sa, è fastidiosa. E un servo, accostandosi a chi ha voglia di bere, versi il vino nelle coppe: non tutte le notti capita di gustare voluttà e piaceri. Ma io, che so godere con misura del vino dolce come il miele, voglio tornare a casa e cedere al sonno che fa scordare gli affanni. Ci arriverò nello stato in cui il vino è più grato a bersi per gli uomini, senza restar sobrio ma senza essermi ubriacato. Ma chi oltrepassa la giusta misura del bere perde il controllo della propria lingua e della propria mente e parla senza ritegno dicendo cose che fanno arrossire i sobri, e nei gesti non si fa nessuno scrupolo, quando è sbronzo: anche se prima era in sé, eccolo istupidito! Ma tu intendi quel che dico e non bere al di là della misura, alzati prima di essere ubriaco, oppure rimani ma smetti di bere! E invece ecco che strilli e ripeti continuamente quella parola stolta – «Versa!» – e così ti ubriachi. Ti si porta la coppa dell’amore, e un’altra è già lì davanti, la terza la offri agli dei, la quarta ce l’hai subito in mano, e non sai dire di no. Ma voi intrattenetevi amabilmente vicino al cratere tenendo alla larga litigi e risse, e discorrete in gruppo, rivolgendo la parola a ciascuno e a tutti. Solo così il simposio s’illumina di gioia». (Teogonide, Elegie, vv. 475 e ss. ).

La spinta di Togonide è interamente rivolta all’autocontrollo e, allo stesso tempo, a non creare imposizioni: non bisogna svegliare chi dorme perché troppo ubriaco, né impedire a chi vuol bere di più di poterlo fare perché non in tutte le notti capita di poter gustare prelibatezze. Ma, e c’è sempre un ma davanti, il meglio è, in ogni modo, il non lasciarsi sopraffare e dominare dal vino: per non perdere il controllo, per non dire cose che possono far arrossire e, soprattutto, per godersi pienamente la parola assieme agli altri.  

Foto A. Stara


Eubulo

Eubulo commediografo ateniese, a cui vennero ascritte 104 opere (376-373 a. C. sono gli anni della miglior e maggior produzione), vincitore sei volte alle Lenee (feste dell’antica Atene dedicate al dio Dioniso Leneo), considerato poeta di transizione tra la Commedia Antica e quella di Mezzo1 per l’impiego del canto della parodo (canto di entrata del coro oppure la parte del dramma recitata dal coro dopo il prologo), per la presenza di brani lirici e per l’uso dei dialetti con intento comico, fu sicuramente più diretto e meno incline alla dialettica nell’indicare una plausibile giusta misura del bere.

Egli lasciò, infatti, che le parole proferite non fossero le sue, ma di Dioniso stesso: «Tre coppe di vino non di più, stabilisco per i bevitori assennati. La prima per la salute di chi beve; la seconda risveglia l’amore ed il piacere; la terza invita al sonno. Bevuta questa, chi vuol essere saggio, se ne torna a casa. La quarta coppa non è più nostra, è fuori misura; la quinta urla; sei significa ormai schiamazzi; sette occhi pesti; otto arriva lo sbirro; nove sale la bile; dieci si è perso il senno, si cade a terra privi di sensi. Il vino versato troppo spesso in una piccola tazza taglia le gambe al bevitore» (Eubulo, fr. 94, in Massimo  Vetta (a cura di), Poesia e simposio nella Grecia Antica, Laterza, Bari – Roma 1983)

Nulla da aggiungere, se non che le famose coppe utilizzate durante il Simposio avevano grandezze ragguardevoli: ad esempio quella di Eufornio, il noto pittore attico di ceramiche e di Cacrilione (vissero nel VI secolo a.C.), il vasaio, conservata a Monaco di Baviera, misurava ben 428 mm. di diametro. E il kantharos (κάνθαρος), che la sostituì parzialmente, sebbene più stretto e allungato, con due grandi manici non era di minor portata. Tre coppe potevano sicuramente bastare nonostante la terza parte del cratere, come in ogni pratica simposiastica, fosse una mescita d’acqua.


Pietro Stara

PIETRO STARA

Pietro Stara dimora e lavora a Genova. Ha collaborato lungamente con il blog Intravino e ne ha uno proprio: vinoestoria. Ha scritto un libro di storia del vino, Il discorso del vino: origine, identità e qualità come problemi storico-sociali per i tipi della Zero in Condotta di Milano e ha collaborato con alcune riviste cartacee: «SpiritodiVino», «Millevigne», «Pietre Colorate».

Insegna Antropologia nel Master di Wine Culture e Communication presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (Bra).