di Alberto Natale

I nostri lontani antenati subivano e interpretavano aggressioni epidemiche gravi e funeste che, in parte, rimandano a temi e considerazioni della nostra difficile quotidianità.

Domenico Gargiulo, Largo Largo Mercatello, la peste di Napoli nel 1656, 1609 o 1610-1675 ca., Napoli, Museo Nazionale di San Martino


In una lettera inviata al poeta e giurista bolognese Claudio Achillini, lo storico gesuita Agostino Mascardi descriveva «le presenti calamità»1 che affliggevano l’Italia nei primi decenni del Seicento. Lo sguardo dell’erudito ligure si posava, sconsolato e lacrimoso, sulle «tante nobili città tormentate dalla fame, manomesse da’ stranieri, esterminate dalla pestilenza, esauste d’abitanti, piene solo di cadaveri e di spavento»2.

Il fantasma della fine accompagnava l’esistenza dell’uomo d’ancien régime e tendeva a manifestarsi col volto più funesto durante le emergenze dell’endemismo pestilenziale e dei molteplici fatali «contagi» – con il loro seguito «di macabre danze demografiche»5 – oltre che, in generale, al cospetto di catastrofi naturali: «diluvi», tempeste, eruzioni, incendi e soprattutto terremoti.

Stupore e fatalismo

La vecchia cultura dello «stupore e del fatalismo»6 avvertiva nell’avvenimento catastrofico il senso ineluttabile della rovina, l’avverarsi delle cupe profezie espresse nelle sacre scritture, la disastrosa tragedia annunciata dalla rottura dell’ordine naturale.

Il cataclisma tellurico (lo «spaventevole mostro»7 del terremoto), l’incendio devastante, l’eruzione proditoria, il clima aggressivo, le alluvioni, le inondazioni, i crudeli «temperii» e le fragorose «gragnuole», si aggiungevano allo stato d’animo di allarme permanente per il «formidabil flagello» della peste.

Calamità che, a causa della loro natura improvvisa, rovinosa e straordinaria, fornivano le occasioni migliori per riflettere sul destino e considerare l’operato umano alla luce di eventi che cambiavano il mondo fin dalle sue fondamenta, stabilendo una discontinuità, una frattura eloquente nella progressione del tempo lineare8

In questo senso gli avvenimenti insoliti, gli stupefacenti prodigi, le vicende sensazionali, gli straordinari sommovimenti della natura partecipavano, come elementi omologhi, alla costituzione di una dimensione dell’immaginario collettivo nella quale si agitavano sentimenti comuni e vicendevoli tra i diversi eventi, tutti qualificati da stupore, da «ammirazione» attonita e da raccapricciante meraviglia. 

Pieter Bruegel, Trionfo della morte, 1562 c.a., Madrid, Museo del Prado

La collera di Dio

Nella società preindustriale la catastrofe, pur improvvisa e repentina, era tuttavia attesa con timore in qualsiasi momento, poiché l’«imperscrutabile» volontà divina era in grado di manifestare il suo «sdegno» in maniera «fulminante»9, sul capo dell’ignorante peccatore. Era difficile prevedere, valutare, spiegare le cause dell’evento (costantemente percepito almeno come preternaturale) perché gli stessi «giudizii di Dio» restavano «occulti», benché non li si potesse certo considerare «ingiusti»10. La collera divina accompagnava instancabile le relazioni degli avvenimenti disastrosi – particolarmente abbondanti nella produzione a stampa destinata al popolo – e i motivi propagandistici che ne giustificavano la ricorrente manifestazione non conoscevano molte variazioni nella loro ostinata semplicità: non c’era da «maravigliarsi» che Dio «sdegnato» scoccasse sulle teste degli uomini «quei fulmini di vendetta, che noi stessi ci tiriamo sopra»11.

Sulla scena dell’evento catastrofico la teodicea ebbe per molto tempo un ruolo predominante, tanto che nelle relazioni di calamità naturali di tutto il Seicento – stampate ancora con gli stessi criteri e ben oltre i primi decenni del Settecento – si tendeva a risolvere il problema delle cause evocando quasi esclusivamente lo sdegnato interventismo divino. Al popolo veniva incessantemente raccomandato di ricordare che Dio era «nauseato»12 dalle azioni degli uomini e che la nequizia dei peccatori, corrodendo irreparabilmente il rapporto umano-divino, accelerava i tempi di un’ingloriosa fine del mondo.

Eppure un tale schema di riflessione e razionalizzazione, che oggi ci sembra assai lontano in base ai nostri modelli di pensiero, è forse soltanto un travestimento di istanze in realtà molto simili.

Oggi, spesso, è semplicemente sufficiente sostituire il volere divino con le istanze di Natura per ritrovare intatti gli stessi paradigmi di pensiero. 

Fame, guerra e peste

A tale proposito il cronista fiorentino Francesco Rondinelli13 nel comporre la relazione dell’epidemia di peste che sconvolse l’Italia nel 1630, ricorreva al classico schema interpretativo nel delineare la micidiale triade delle «tre crudelissime furie ministre della giustizia del cielo» Fame, Guerra e Peste: tra «i malori ai quali soggiace l’umana miseria» essi tengono «la parte peggiore, sedendo in cima», permettendo «alla Divina mano di legare i miscredenti, i quali col viso altiero insuperbiscono» con una «catena molto pesante», ma non poteva fare a meno di sottolineare gli aspetti sociali di tali castighi.

Se la fame non colpisce tutti poiché «la carestia consuma solo i poveri», mentre la guerra, pur provocando generali sconquassi, prevalentemente «distrugge i soldati armati e gli huomini vigorosi» ma «perdona al sesso imbelle et alla fanciullezza», soltanto l’epidemia di contagio è davvero universale poiché «penetra dentro le più riposte e segrete stanze di qualsivoglia ben guardata rocca, bastandole per entrarvi un minimo spiraglio, e spesso le medesime guardie le servono per instrumento di sua vittoria, perché in simili tempi è più guardato chi ha minore compagnia [ed] è maggiormente sicuro chi è più solo. Non conosce ella distinzione di poveri, o ricchi; ma alla sua bramosa voglia, che mai non s’empie, e dopo il cibo ha maggior fame che prima, tanto sono soavi li stracci d’un mendico e d’un paltoniere disprezzato, quanto la porpora reverita dei Senatori e dei Re. L’impetuoso soffio di questo vento atterra egualmente i robusti e gagliardi e ben barbicati nel vigore e nella sanità, quanto le femmine e l’età tenera»14.

E comunque, pur nella sua manifestazione funesta il cronista trovava necessario ricordare che la sciagura può solo purificarci, poiché «Dio cava sempre dalla peste qualche particolar bene» e nella sua onnipotenza ha non solo «concatenato il bene col male, ma ancora provveduto, che non ci sia avversità dalla quale per lo più non si cavi utile, e nel mezzo all’amaro delle miserie ha posto la dolcezza del giovamento»:15 non molto diversamente in questi giorni si sente ripetere con insistenza che l’epidemia che stiamo affrontando ci renderà migliori e che, passata la tempesta, sapremo – o quantomeno, dovremo – tenere in debito conto quanto essa ci avrà insegnato, compreso il ricordarci che gli uomini sono tutti uguali e che ci addolora essere tenuti a distanza perfino da chi prima guardavamo con disprezzo o che respingevamo in mezzo al mare.16 

Città in solitudine

«Che strano cambiamento!» – esclamava il Vescovo di Marsiglia, Enrico di Belzunse, in occasione delle «tremende circostanze» e dei «miserabili triboli» della peste di Marsiglia nel 1720. «Questa città in fine, per le strade della quale, non ha gran tempo, si stentava a poter passare per la gran folla del popolo, che ella in se conteneva, è in oggi abbandonata alla solitudine, al silenzio, all’indigenza, alla desolazione, alla morte. Tutta la Francia, tutta l’Europa sta in guardia, ed armata contro i di lei sventurati abitanti, divenuti odiosi al resto de’ mortali, co’ i quali nulla più altrove si teme che l’aver qualche sorta di commercio. Che strano cambiamento!»17.

_______________________

Note

1. Due lettere. L’una del Mascardi all’Achillini, l’altra dell’Achillini al Mascardi sopra le presenti calamità. Dedicate all’illustrissima signora D. Maria Pepoli contessa di Castiglione, Sparvi e Barragazza, in Bologna, per Francesco Catanio 1630.
2. Ivi, p. 1.
3. Ivi, p. 4.
4. Ibid.
5. Augusto Placanica, Il filosofo e la catastrofe. Un terremoto del Settecento, Torino, Einaudi, 1985, p. xi.
6. Ivi, p. 202.
7. Vera e distinta relazione dell’orribile terremoto seguito in Napoli e in tutte le terre adiacenti di detto Stato, fino nella Puglia. Seguito il giorno di sabbato 29 novembre dell’anno 1732, come da lettera particolare di quelle parti si è ricavato, in Bologna, per Carlo Alessio e Clemente Maria fratelli Sassi, 1732, c. 2 r.
8. Placanica, Il filosofo, cit., p. 125.
9. Vera e distinta relazione dell’orribile terremoto seguito in Napoli, cit., c. 1 v.
10. Garzoni, Il serraglio de gli stupori del mondo, Venezia, G.B. Somasco,  1587, p. 160.
11. Vera e distinta relazione dell’orribile terremoto seguito in Napoli […], 1732, cit., c. 1 v.
12. Distinto ragguaglio del funestissimo caso occorso nella città di Madrid, nella notte delli 15 dello scorso mese di settembre 1723, in cui si sente l’orribil temperio in essa occorso, con la morte di vari soggetti e di quelli salvatosi per misericordia divina, in Bologna, per Carlo Alessio e Clemente Maria fratelli Sassi, 1723, c. 2 v.
13. Francesco Rondinelli, Del contagio stato in Firenze l’anno 1630 e 1633, Firenze, Gio. Battista Landini, 1634.
14. Ivi, p. 2.
15. Ivi, p. 10.
16. Coronavirus, “via l’untore bianco”. Dal Kenya all’Etiopia episodi di violenza contro statunitensi ed europei, “la Repubblica.it”, 25 marzo 2020.
17. Editto promulgato in Marsilia, tradotto dal francese nel nostro idioma, di Monsig. Illustriss. e Reverendiss. Vescovo di Marsilia Enrico FrancescoXaverio di Belzunse […], in Firenze, 5 dicembre 1720.


ALBERTO NATALE

Alberto Natale è nato a Bologna il 21 dicembre 1953. Si è laureato al DAMS all’Università di Bologna con Piero Camporesi. Ha fatto poi parte del suo gruppo di ricerca, rivolgendo il suo interesse e i suoi studi alla letteratura di consumo nell’età moderna. 
Oggi è membro del Comitato scientifico del Centro Studi intitolato allo stesso Piero Camporesi presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna. Il Centro si propone di mantenere viva la lezione dell’eminente italianista (ma anche storico e antropologo, come spesso è meglio conosciuto fuori dell’Italia) a partire dalla valorizzazione della biblioteca e dell’archivio personale dell’autore, acquisita dal Dipartimento.
Natale ha studiato i rapporti tra Giulio Cesare Croce e la letteratura di piazza, i temi del mostruoso in Tomaso Garzoni e gli usi propagandistici della paura nella letteratura di consumo del XVII e XVIII secolo. 

Seguendo la pista camporesiana dell’antropologia alimentare, si è occupato delle trasformazioni simboliche dell’immagine degli alimenti nella società e nella letteratura e delle narrazioni del cibo nel racconto cinematografico. 
Ha partecipato all’attività didattica del corso Cibo e comunicazione – del Corso di Laurea in Scienze Gastronomiche presso l’Università  di Parma; collabora attivamente alla rivista del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna, Griseldaonline, nella quale ha pubblicato numerosi contributi.