di Diego Rosa

SECONDA PUNTATA


La Bassa

La Bassa, si è detto, era terra d’acqua e dall’epoca romana le genti hanno lottato contro i «loquaci gorghi», le acque stagnanti e il corso dei fiumi. I territori sono stati difesi dalle alluvioni e si è sempre cercato di acquisire nuove superfici coltivabili.
Fondamentale è bonificare.
Queste terre diventeranno molto fertili e l’agricoltura sarà l’economia quasi totale con qualche piccola esperienza quale l’industria del truciolo per costruire cappelli e ceste, l’allevamento del baco da seta. La fornace per cuocere l’argilla data dalla terra del Po.

Agricoltura significa latifondisti, mezzadri e affittuari, cioè ricchezza e benessere, ma anche lavoratori giornalieri che vivono in estrema povertà e precarietà.

C’era la palude, si viveva negli acquitrini, in case fatiscenti o sotto una tenda o in alloggi fatti di frasche messe insieme alla bell’e meglio. Ci si nutre di erbe, rane e qualche pesce di fiume. Nella palude non c’è molta gente, quindi gli abitanti si incrociano tra loro, così mi diceva mio padre quando ero piccolo, poi ho capito perché il suo paese, Cizzolo, era abitato da gente un po’ particolare, anche fuori di testa che loro chiamavano STRAORDINARI, cioè fuori dall’ordinario, fuori di testa. Non li chiamavano matti, erano eccellenze di un certo territorio. Io ascrivo la storia dei NAIFS a discendenze di questo tipo.

Dopo così tanta acqua e umidità, mi viene voglia di parlare di vino, del Lambrusco. Leggero come le pance vuote delle famiglie dei braccianti, ma frizzante e combattivo come le lotte dei braccianti e non solo. Un vino attento, permaloso e vendicativo, ma anche assolutamente ristoratore e rigeneratore.

Questa TERRA è, come scrive Marco Fincardi, DISINCANTATA perché lotta per emanciparsi dalla Chiesa che si è intrufolata dappertutto creando una società autoritaria e ottusa dove si vuole obbedienza, semplicità frugale e attaccamento deferente ai valori religiosi e alle pratiche rituali della religione.

Siamo a fine Ottocento e la fame è ancora terribile.

Vediamo a questo proposito alcuni stralci presi dai reportage di Adolfo Rossi, giornalista vissuto tra Ottocento e Novecento.

«Ogni volta che in una stalla dei villaggi del Polesine muore di qualche malattia un bue o una vacca, il veterinario del mandamento ne ordina il seppellimento. E questo viene eseguito da tre o quattro contadini in presenza dell’usciere municipale. Ma appena questi si allontana di pochi passi, succede una scena selvaggia. Venti o trenta contadini armati di badili, di accette, di falci e di coltelli si avanzano frettolosamente, dissotterrano l’animale e lo tagliano cercando ognuno di prendersi i pezzi migliori… Pazzi di fame si avventavano a disseppellire le carogne delle bestie morte di malattia. Per contendersi una mezza coscia, la trippa, il fegato nascono sempre liti: gli improvvisati beccai, tutti insanguinati, con gli occhi luccicanti per l’avidità e la fame, si minacciano, gridano e spesso si battono… Appena i contadini hanno preso la loro parte di bottino, corrono a casa e mettono la carne e le ossa a bollire nel paiolo in cui fanno la polenta… Quando muore un animale di carbonchio o altra malattia contagiosa, il veterinario, conoscendo gli usi del paese, ordina che nelle carni del cadavere si facciano delle larghe incisioni e vi si versi dentro del petrolio. Ebbene, neppure questa precauzione serve perché la sepoltura della bestia resti inviolata: c’è chi ha lo stomaco di mangiare anche le carni più infette».

La fornace Frazzi

Durante la grande crisi del 1880 i lavoratori stagionali devono abbandonare i campi e MIGRARE. È l’inizio della loro EMANCIPAZIONE. Si spostano in Italia e all’estero, anche per brevi periodi. Sono lavoratori marginali, instabili, fanno di tutto e vengono pagati in moneta, quindi i loro consumi non sono più controllabili da preti e padroni. Tanti lavoratori si specializzano nella costruzione di ferrovie, massicciate, argini, bonifiche.
Quando tornano hanno acquisito una nuova coscienza, sanno di appartenere a una classe e sanno che se non si lotta non si ottiene niente.
Si hanno le prime aggregazioni politiche antagoniste del proletariato rurale che va allo scontro col clero e la società dominante.

La morale cattolica a metà Ottocento si avvicina all’etica protestante e allo spirito del capitalismo di stampo calvinista. Ricchi si diventa perché Dio ci dà la grazia. La fortuna del padrone e del mezzadro discende dal loro stato di grazia, quindi il vincolo è la religione. Dio invece non tocca col suo stato di grazia il bracciante che è perciò un elemento di instabilità per la società rurale ed è visto come il diavolo e l’osteria che ora frequenta è l’inferno. In questa logica ai padroni assennati spetta il controllo sull’assoluta dedizione dei braccianti.

L’arciprete don Luigi Parazzi, nel 1876, individua nella caduta dei “valori tradizionali” la nascita di seri problemi di ordine pubblico a cui dovrebbero provvedere la polizia e gli uomini d’ordine, laici o religiosi che siano. In una sua relazione scrive:

«È con vera compiacenza che si fa fede essere i campagnoli stabilmente accordati coi proprietari di fondi la classe più quieta, più contenuta, più relativamente agiata, e nella quale lo spirito di famiglia, di compattezza morale è più vivo, e generalmente forte e fecondo di virtù. Al contrario i campagnuoli, o braccianti, che hanno un lavoro avventizio, sono la vera feccia dell’infima classe sociale, la gente più scostumata, sempre pronta al furto campestre, alle gozzoviglie, al far baccano, all’abbandonare vecchi genitori, spose e figliuoli, per darsi al vagabondaggio, al turpe accattonaggio, all’uscire del proprio paese in cerca di lavori lucrosi, onde soddisfare alle passioni più disoneste. Questo nero quadro delle condizioni di tal classe della nostra società, se merita se ne impensierisca chi sta a capo della cosa pubblica, esclude, a subordinato giudizio dello scrivente, la necessità di migliorare la condizione economica de’ giornalieri campagnuoli , e ammette quella di pensare al rifiorimento della pubblica moralità. Nel caso più concreto d’emigrazione non si esclude la probabilità che gli emigranti sieno sobillati da taluni o interessati nella cosa, o vaghi di perturbare con essa l’ordine sociale».

Anche il sindaco di Cadelbosco Sotto affronta il problema:

«Il lusso è aumentato di molto per la circostanza che i lavoratori avventizi, che si trasferiscono in lontane provincie per lavoro, perdono la semplicità primitiva e prendono abitudini di lusso, di dispendio e non di rado di vizio, talchè ritornando in paese guastano non di rado i buoni costumi dei più».

(la terra disincantata, Fincardi, pag 225-226)

Abbiamo visto l’acqua, la palude, la malaria, la miseria nera, ma questa gente non sta con le mani in mano, emigra, lotta, si crea una coscienza di classe.
Il passo successivo è mettersi insieme, creare una cooperativa che abbia un peso politico nella società.

Operai agricoli davanti a Palazzo Greppi a Santa Vittoria di Gualtieri


Nella bassa reggiana e nelle zone limitrofe del mantovano nascono cooperative che prima conducono in affitto, e poi anche in proprietà, rilevanti quantità di terra da coltivare. Una di queste esperienze è a Santa Vittoria di Gualtieri e coinvolge buona parte della popolazione. La spinta viene dal bisogno di garantirsi una fonte di reddito tutto l’anno, di emanciparsi e di incivilirsi. Il processo evolutivo di questa cooperativa sarà lento e silenzioso a causa di una insistente e insidiosa repressione poliziesca aizzata dai notabili locali legati al proprio potere e alla rendita economica garantita dal comune. Il movimento delle leghe si diffonde e la vittoria elettorale dei socialisti in molti comuni dà la svolta. I proprietari preferiscono affittare o vendere la terra alle cooperative piuttosto che affrontare una continua conflittualità coi propri salariati e con le amministrazioni comunali, ma conta anche che i terreni vallivi non rendono più. A Santa Vittoria la cooperativa va oltre, eroga servizi collettivi. Non è la solita cooperativa che serve solo per trovare lavoro ai braccianti, di certo una funzione importante. Quasi tutto il villaggio, con le sue molte funzioni ed esigenze, diventa una cooperativa, si batte anche moneta.

Nasce il detto TOUC A VONA (tutti uniti come se fossimo una persona sola).

Prima di questo passo c’era stato l’arrivo della famiglia aristocratica milanese dei Greppi.
Siamo nella seconda metà del del Settecento e i Greppi introducono la risaia, quindi riportano le acque in aree già bonificate ricreando un ambiente malsano e poi i lavoratori sono tutti precari, compresi donne e bambini presi a lavorare perché costano molto meno.

Per lavorare il riso non serve mano d’opera tutto l’anno. Si lavora anche per pochi giorni e d’inverno si deve vivere di espedienti, di furti campestri e di “elemosine” raccolte da donne e bambini. A ingaggiare la mano d’opera ci sono i caporali come si fa ancora oggi in meridione.

Palazzo Greppi a Santa Vittoria di Gualtieri

Nel 1889 una legge prevede di stipulare contratti d’appalto tra lo stato e le cooperative di lavoro legalmente costituite. Il clima di repressione però resta. Infatti a Santa Vittoria nel 1892.

«La sera del 12 giugno, alle ore 10, nel clima degli intensi lavori stagionali e per la voglia primaverile di incontrare un po’ di gente dopo cena, prima di andarsi a coricare, c’è una notevole animazione. Due carabinieri inviati appositamente pattugliano le strade. Provocati nel buio da un gruppetto di braccianti e contadini col canto dell’“Inno dei lavoratori”, si lanciano arrabbiati all’inseguimento, fermando uno che, invece di darsi alla fuga, si è appartato a fare un bisogno. Il gioco diventa subito serio quando i carabinieri prendono l’uomo, Agostino Franceschini, e lo trascinano verso la casa di una guardia comunale, visibilmente in stato di arresto. La notizia vola subito e in un baleno la prigione improvvisata viene assediata dai cittadini. Quando un carabiniere e la padrona di casa si affacciano alla finestra del piano superiore per trattare lo sgombro del campo da parte degli assedianti, vengono insultati, specialmente dalle donne. Alle tre e mezza il prigioniero è rilasciato. Si individuano ventiquattro colpevoli per il tumulto, anche tra quelli accorsi solo per risolvere la situazione. La gente comune sostiene anche economicamente le famiglie degli arrestati. Il processo si dimostra una farsa in cui c’è la volontà del ceto dominante, politico e religioso, di castigare duramente dei poveracci, per un reato ridicolo del tutto inconsistente. La sentenza si fonda solo sui testimoni d’accusa».

(1° Maggio reggiano, Vol 1, Marco Fincardi. pag 211 e seguenti.)

Per il popolo quella notte diventa quasi un mito. Franceschini fa rammendare la camicia indossata e strappata nella colluttazione di quella notte. Diventa un abito importante, un simbolo che Franceschini indosserà il giorno del matrimonio.

La cooperativa esegue, come si è detto, lavori di risaia, ma anche espurgo canali, ghiaiatura, opere stradali, riparazioni di corsi d’acqua, edilizia…

Nella Bassa c’è un altro vino diventato famoso per una canzone popolare: L’uva fogarina.
È stata un’uva da taglio importante per l’economia della zona fino a quando è arrivato l’acido tartarico. Veniva esportata in Piemonte, Francia, Germania e anche Africa orientale. Chiamata Fogarina perché capace di dare fuoco e vigore alle uve più scadenti.

Veronelli ci dice che la Fogarina è un vino rosso, giovane, leggero, giustamente asciutto».

Narra la leggenda che Carlo Simonazzi, nel 1820, vide sulla sponda sinistra del Crostolo una vite piena di grappoli d’uva nera. E’ rigogliosa, ma siamo a novembre e questo l’incuriosisce. La trapianta nel suo podere, ne ricava abbondantissima uva uguale a quella trovata, a maturazione tardiva, cioè a fine novembre.

Da questa terra nasce, si dice, anche il LISCIO, un fenomeno musicale che invaderà l’Europa.
Santa Vittoria di Gualtieri fa parte di questo movimento musicale e culturale grazie e in forza  della sua tradizione  dei violinisti e dei BALLI DI GARA, scritti ed eseguiti da quintetti. Due violini, primo e secondo, un violino controcanto, una viola e un contrabbasso.

Per tutto l’Ottocento si fa musica per far ballare, poi i musicisti tendono ad affermare la propria personalità componendo molti pezzi originali per il ballo nelle nelle fiere, nelle sagre, per carnevale e nelle feste stabilite dal clero e sotto stretta osservanza. Tante sono anche le feste private che si svolgono sulle aie e che vogliono sfuggire a ogni controllo.


Dal 1890 sorgono numerosi gruppi familiari che scrivono musica da ballo e si strutturano, come detto, in orchestre con violini, viola e contrabbasso. Contemporaneamente a Mezzano, in provincia di Parma, nasce il liscio dei fiati e a Campagnola quello delle corde. Sembra che la tradizione dei violini a Santa Vittoria venga da una colonia di tzigani magiari che si era fermata sul territorio. Si creano grandi famiglie di violinisti che suonano per guadagnare qualche soldo all’inizio, poi coi balli di gara nel Novecento gireranno l’Europa. Si vede subito che ai braccianti piace ballare. Ma quanta fatica e quante lotte per acquisire il diritto a divertirsi. Si suona anche ai funerali e ai matrimoni.


Sappiamo già che ogni desiderio di emancipazione e divertimento è combattuto dai preti che aizzano gli sbirri.
La legislazione era molto rigida e limitante e le feste erano sorvegliate dai militari, i Reali Dragoni. A queste ristrettezze si univano quelle del clero che disapprova le feste ritenute un disturbo per le funzioni religiose e momenti di litigi. Tante sono le feste interrotte e tanti i musicisti arrestati con relativa confisca dello strumento. Ossessivo è poi il controllo su possibili turbamenti sessuali specie quando il ballo da staccato diventa a coppia chiusa e i corpi si toccano.

Il piacere non si può fermare, vince sempre e la gente aguzza l’ingegno. Per evitare arresti e interruzioni i cittadini di Santa Vittoria escogitano uno stratagemma.

Ercole Paglia, un ragazzo di 17 anni, violinista e agricoltore, forse d’accordo con alcuni abitanti, ideò nel 1845 un sistema per suonare e far ballare aggirando i divieti della polizia, facendo arrabbiare non poco le forze dell’ordine.

Le feste si svolgevano al Ponte delle Portine, sul confine tra il comune di Gualtieri e il comune di Cadelbosco. I Reali Dragoni avevano competenze solo sul proprio territorio comunale, perciò ballerini e suonatori si spostavano da un comune all’altro secondo la competenza dei Dragoni che arrivavano.

Dice una nota del Priore di S. Vittoria al Delegato politico che «è invalso il riprovevole abuso da parte di alcuni villici di ballare sulla pubblica strada di Cadelbosco Sotto di confine con Santa Vittoria, per cui vi concorre la maggior parte del popolo vittoriese, tralasciando così di andare alle chiese con sommo scandalo di tutti e anche con  grandi inconvenienti di risse e altro» .

Sono tanti i personaggi usciti da questa terra e, se andiamo a vederli da vicino senza lo stupido campanilismo, hanno tutti l’impronta dello STRAORDINARIO.

Su tutti Cesare Zavattini, quasi impossibile da descrivere se non come geniale, una delle più grandi teste del secolo scorso.

Danilo Donati, costumista premio Oscar, Umberto Tirelli, fondatore di una sartoria che ha collaborato con premi Oscar come Gabriella Pescucci, Piero Tosi, Pier Luigi Pizzi e registi importanti, tra cui Luchino Visconti, Marcello Nizzoli, artista e designer, sua è la famosa Lettera 22 della Olivetti.

È anche terra di NAIFS, gli artisti ingenui e anti-accademici su cui spicca Bruno Rovesti e poi sempre artisti in bilico tra le regole o no come Antonio LIGABUE e Pietro Ghizzardi che si vuole  vaghino anche tra primitivismo ed espressionismo.

Opera di Antonio Ligabue



Da ultima ricordo Giovanna Daffini che ha fatto una vita grama e che è stata importante per la musica popolare avendo fatto parte, negli anni Sessanta, del Nuovo Canzoniere Italiano.

Ce ne sono altri, per esempio I Braccianti che hanno messo in piedi e condotto la cooperativa, partigiani come la Famiglia Rossi, sterminata il 25 Aprile del 1945 e l’anarchico Ariè, ucciso a vent’anni, negli anni Venti, dai fascisti di Luzzara e lasciato in terra contro un muro, come monito, a rinsecchirsi come un pipistrello ucciso con una fionda. Lo ricorda in una struggente poesia dialettale Cesare Zavattini.

Abbiamo nominato, come in genere si fa, quelli dediti all’arte, senza voler togliere niente agli altri che restano nella memoria locale e sono patrimonio dell’umanità.

E il cibo?

Dopo tanta fame con le migrazioni si esce dalle grinfie di preti e padroni e si comincia a essere pagati in soldi e non in natura, cioè riso per mondine e mondini e granoturco per gli avventizi.

Zavattini nella sua descrizione dei mesi ci dice che «a dicembre chi non l’ha fatto e ce l’ha ammazza il maiale»  del quale nella Bassa non si è mai gettato niente, con gli scarti, ossa e setole, si facevano pettini e pennelli. Il maiale era fonte di vita e di sopravvivenza per tutto l’anno, era il salvadanaio della famiglia e non dipendeva dalle stagioni. Il suo grasso, il lardo, era il condimento dei poveri e il detto “nuotare nel grasso” è diventato sinonimo di abbondanza.

rete per la pesca delle rane



C’erano poi le rane e le lumache. Il ranarolo è colui che vive cacciando le rane e c’è chi usa il fanale a carburo che le blocca ipnotizzandole e chi cavallerescamente invece accetta la sfida usando il bastone e lo spago con l’amo o addirittura le nude mani. Oggi le rane sono scomparse e arrivano dalla Romania.

Francesco Petrarca un giorno passò per Luzzara e si impantanò in un acquitrino venendo letteralmente divorato dalle zanzare. Fuggì a gambe levate ricordando questa come un’esperienza terribile. In una lettera del 28 Giugno 1350 scrive che al fango e alle zanzare «s’aggiunse un esercito di rane che durante la cena sbucarono dalle cantine e liberamente si dettero a saltare per la stanza» .

Un altro cibo per poveri è la polenta che toglie la fame ma non nutre a dovere.
È il pane dei poveri ed è sinonimo di pane e pellagra. In fondo il granoturco, il frumentone, era la paga dei braccianti.

Bertoldo, il contadino dalle scarpe grosse e dal cervello fino, ci dice che:

«il giorno più lungo è quello che si sta senza mangiare», come accadeva ai poveri homini delle cronache di tanti luoghi della Bassa, costretti a fare pani di ghianda e a viversi d’herbe o morirsi di fame.

Quando le cose vanno meglio, la regina assoluta diventa la sfoglia, tirare la sfoglia era la prima cosa che le madri insegnavano alle figlie. Con la sfoglia si avevano le tagliatelle, i maltagliati (straciamus), i bigoli, i quadrettini. Sia in brodo che asciutti.

Le tagliatelle buone erano quelle ottenute da una sfoglia impastata con sole uova, senza l’aggiunta dell’acqua. È qui che nasce la Minestra dell’obbligato che era il dipendente agricolo che lavorava tutti i giorni dell’anno nei campi e nella stalla: la sua sfoglia era con l’aggiunta dell’acqua.

Il lavoratore saltuario invece non poteva permettersi la pasta. I poveretti non avevano niente di buono vicino al letto: il sacco di fagioli e la zucca come companatico. I funghi si buttavano perché non c’era l’unto per cucinarli. Anche il formaggio era solo per i signori. Quando si può si compra un po’ di carne per fare un brodo.

Ci sono poi le Paste ripiene.

Lungo il Po ci sono decine di ripieni diversi tra loro, persino i paesi a volte hanno ripieni diversi a seconda delle zone.     

Ancora oggi le famiglie della Bassa hanno le loro varianti per tortelli, cappelletti e agnoli.
Sono segrete e fonte di vanto.
Finita la miseria tutto ciò è un gioco fantastico.

Nella Bassa abbiamo i tortelli di zucca o di erbette che sono da condire e i cappelletti e gli agnoli che si fanno in brodo. La forma del cappelletto e dell’agnolo riproduce l’ombelico e differisce anche per le dimensioni.
È sempre stato un mangiare di festa: la sagra, Pasqua e Natale.
La sera della vigilia di Natale entrano in scena i tortelli perché è di magro.

Ora nei ristoranti siamo all’abbondanza scriteriata di combinazioni per ciò che riguarda i tortelli.

Interessante diventa l’abitudine di consumare i cappelletti in brodo corretto col vino. E’ il BEVRINVEIN o SURBIR.

Nel libro Bere giusto, scrive, (pag 51-52), del rapporto Brodo-Vino e a un certo punto Luigi Veronelli chiarisce:

«apro parentesi: in qualche ristorante di classe – ovvio la classe se la attribuiscono loro – il vino è aggiunto al consommè, a tavola, davanti al cliente; sappi insultare, con dovuta violenza, il maitre che lo propone; il vino “sta” al cuoco: solo lui, alla faccia di misure o tabelle, ha il tour de main per l’aggiunta, solo così il vino si avvolge, in un caldo abbraccio, nel brodo e lo aromatizza».   

Per fare il bevrinvein si prende una scodella in cui si mettono alcuni cappelletti o agnoli, si aggiunge il brodo bollente e poi il Lambrusco in una quantità che deve lasciare il brodo molto caldo. Il tutto prende un colore violaceo.

O PIACE O NON PIACE, NON CI SONO VIE DI MEZZO, per noi è allegria, è festa. Poi, naturalmente , si passa ai cappelletti o agnoli in brodo, senza vino e nel piatto.

Di certo, secondo me, non è una minestra nata così. Se si voleva usare il brodo, già leggero di per sé, alcune volte lo si allungava con l’acqua e alla fine gli si dava sapore col vino che rivitalizzava quel liquido ormai senza sapore.

I cappelletti sono stati anche uno strumento di lotta. Sotto il fascismo, a Santa Vittoria, si mangiavano anche il Primo Maggio, festa dei lavoratori. I compaesani emigrati mandavano i soldi per potersi permettere questo lusso. I fascisti entravano nelle case per vedere se si mangiavano i cappelletti, ed erano botte.
Si dice anche che i fascisti bastonassero i papaveri perché erano rossi…

Ora vado sull’altra sponda, quella sinistra, mantovana per raccontare altre storie di cibo e vino.

il minestrone col vino e la mietitura. Quando si mieteva, mio nonno e mio zio aspettavano mia nonna che portava loro in una marmitta un minestrone bollente. Loro, all’ombra e in riva al fosso, lo correggevano col Lambrusco. Facevano una sudata “bestiale”, però poi non avevano più sete per tutto il pomeriggio.

— il caffè corretto col Lambrusco ha la stessa funzione, d’estate toglie la sete.

Tortelli di zucca – Foto La Cucina italiana

— i tortelli di zucca col vino la sera della Vigilia di Natale.
È’ un’usanza strana che quasi più nessuno ricorda.
Non so perché si facesse solo la sera della Vigilia di Natale.
La stranezza è che i tortelli non sono in brodo, quindi il vino gorgoglia su due o tre tortelli non ancora conditi e messi in una scodella. Il Lambrusco si scalda e dà una sensazione strana che io adoro: l’adorato tortello di zucca col vino che gli gorgoglia sopra..

— le verze in brodo col vino il mattino della Vigilia di Natale.
Questa non era una scelta, ma una necessità. Il giorno della Vigilia di Natale è di magro e di digiuno fino alla sera.
Quindi quando con mio nonno andavo a fare gli auguri, ci davano una scodella di brodo con le verze. Dopo due o tre visite e relative scodelle, si aggiungeva il Lambrusco per cambiare sapore e andare avanti con gli auguri.

— la mia merenda col pane-biscotto intinto nel Lambrusco. La faccio ancora. Esige un’abilità che consiste nel non ammollare troppo il pane che deve mantenere all’interno il suo saporee la sua croccantezza.

Naturalmente la Bassa è terra di salumi pregiati, questo è risaputo.
Ci sono anche allevamenti di bestiame e poi c’è sua maestà il Parmigiano Reggiano

La Bassa è percorsa dal Po.
Non è facile parlare del Po perché, come diceva Zavattini, ognuno di noi ha il suo pezzo di Po.

«Il Po da anni nel mio cuore cominciava mezzo chilometro prima di Luzzara e finiva mezzo chilometro dopo» .

Un detto nostro ci ricorda che chi con le terre si avvicina a Po, può essere ricco alla sera e povero alla mattina. Sempre Zavattini ci ricorda che «il Po è molto pericoloso per nuotarci, è facile trovare un buco, un mulinello, e non si esce più. E’ anche un ladro, per quel gran torto fatto a mia madre, alla quale ha rubato un un ragazzo, proprio come un ladro». Poi aggiunge «i miei compaesani, che mi hanno visto molte volte come un pensatore sulla riva del Po, non immaginano che in quel silenzio  spesso nebbioso mi domandavo perché avessi tanta paura dell’acqua».

Gianni Brera rincara la dose: «non esiste padano vero nel cui sangue non si perpetui il timore e quindi anche l’odio per il grande fiume. Gli amori e le estasi agiografiche sono vezzi di terricoli con i piedi ben al sicuro… Il Po è traditore mi hanno insegnato a pensare fin da piccolo: andare a nuotare in Po significava farlo a proprio rischio e pericolo. Il rivaiolo padano diventa vir agli occhi dei suoi paesani se riesce a traversare il Po e tornare nuotando».

Oggi tutti questi miti e pericoli sono scomparsi perché il Po è inquinato e la balneazione è proibita. Il mio ultimo bagno  è stato nel 1974, nel secolo scorso.

Schiume inquinanti sul Po

Oggi leggere gli scritti sulla Bassa, leggere Zavattini oppure le poesie di Bellentani o gli scritti di tanti altri è avere consapevolezza di ciò che non c’è più. Non parlo dei ponti in chiatte, non ci mancano anche se erano lenti e poetici e sicuramente più sicuri di quelli in cemento, nel senso che la loro manutenzione era minima come quella delle strade  di ciottoli rispetto a quelle asfaltate. Come pure non ci mancano le piantate, le nebbie, la falce battuta dal contadino, la via alzaia o quant’altro.

Il venir meno del rispetto idrico del territorio ha aperto il corso all’ inquinamento, per esempio la sciagurata operazione di Po 2000 che permetteva le escavazioni e l’acqua scendeva così veloce che non veniva depurata naturalmente. Oltre a questo gli scarichi non controllati. Oggi lo sono. C’è poi stata una drastica mutazione del territorio urbano che ha reso anonimi i nostri paesi. l’entrata nei paesi prima ci accompagnava, ci introduceva, ora le entrate sono diventate dei veri musei dell’orrore. Imperano scatole enormi che contengono concessionarie d’auto oppure ci sono ipermercati dalle architetture fantasiose quanto orribili. Tutto è ormai anonimo e orrorifico. Gianni Celati nel suo Viaggio verso la foce ne fa un ritratto impietoso e vero.

« … Completa assenza di uccelli nell’aria… Ore 13, circa, arrivo Pieve S.Giacomo. Una grande piana senza ondulazioni, attraversata da una superstrada dritta che porta a S.Daniele e poi a Casalmaggiore. Attorno in distanza cavalcavia d’ingresso alla superstrada e qualche casa colonica, in una campagna senz’alberi, prati, uccelli… Sul viali della stazioncina molte di quelle villette geometrili, alcune su terrapieno a giardino, tutte cinte da muretti e cancellate che servono solo a fare figura…
Visita a una stradina di villette a forma di modellini, con tinteggiature acriliche o rivestimenti in piastrelle, bugnato o finta roccia. Tutte squadrate allo stesso modo, cassoni a due piani con tapparelle di plastica e corto spiovente del tetto. I giardinetti attorno con sedie a sdraio o panchine sul prato all’inglese, falsi pozzi in scagliola, fiori troppo grandi o troppo colorati nelle aiuole e molto spesso i nani di Walt Disney ai lati della porta. In uno di quei giardini c’era un carrettino siciliano pieno di vasi di fiori, in un altro due oche in gesso sul prato, in un altro la statua della Madonna in un cespuglio di magnolie… Sopra l’argine comprensorio in direzione di Pieve d’Olmi, dalla strada sopraelevata vedo molte vecchie corti abbandonate. Sono gruppi di costruzioni a quadrato con cortile interno e ingresso ad arco, dove la linea dei tetti a volte culmina nella guglia d’una chiesetta incorporata nella corte. Ho sbirciato in uno di quei cortili, c’erano strumenti agricoli abbandonati e paglia per terra. Gli abitanti delle corti sono andati tutti a vivere in quelle villette geometrili sparse nelle campagne e il bestiame è stato trasportato in grandi capannoni industriali… Sotto gli argini, dalla parte del fiume o dall’altra, boschetti golenali che un tempo dovevano essere soprattutto di salici. Adesso dovunque pioppeti disposti su linee scalate (da qualunque parte si guardino si vedono linee d’alberi in diagonale), formano assieme agli argini un ordine spaziale che esiste solo da queste parti» .

Siamo avviati a diventare una terra senza qualità , una terra che ha scelto di non vivere rinunciando alla propria essenza  che è quella della terra di fiume, terra d’accoglienza e di scambi:

IL FIUME PORTA E IL FIUME PORTA VIA,

il fiume è sempre stato il rapporto con l’altro, la nostra cultura si è costruita  nello scambio con l’altro. Le nuove generazioni faticano ad avvertire questa emergenza sia ecologica che  politica e culturale.

Oggi c’è solo indifferenza perché il nuovo valore è non avere progettualità futura e ciò ha ucciso il desiderio.

Da decenni Coop, Arci, Asili, il Partito, quando c’era, e ora Fico e Slow Food ci continuano a dire che l’importante è non pensare, ci pensano loro a farlo per noi e ci dicono che così siamo liberi allora noi desideriamo ciò che loro ci fanno trovare e non troviamo ciò che vorremmo. La Bassa che si è liberata dalle acque e dallo sfruttamento spietato è ora prigioniera della società dello spettacolo, anzi, con tutta l’Emilia ne è una punta di diamante.
La nostra terra , che con la zona di Parigi è la più inquinata dell’Europa, ha distrutto una storia di riscatto e consapevolezza, consegnandosi al consumo indifferenziato.

Mi piacerebbe pensare che  si possa ripartire come fa il fuoco sotto la cenere che sembra spento ma non lo è. So anche che sono vecchio e il domani non mi appartiene. Buon vento.

GRAZIE


DIEGO ROSA

Laureato al DAMS di Bologna, con una tesi su Pinot Gallizio, “l’uomo di Alba”, Diego Rosa, nato a Viadana (MN) nel 1948, ha partecipato a tranquille esposizioni individuali e collettive. “Le mie opere – usa dire – sono nelle case dei miei migliori amici”. Ha organizzato vari eventi artistici tra cui, tra il ‘90 e ‘95, la rassegna “Trame e orditi”, con l’obiettivo di fare il punto delle arti visive nella zona della Bassa padana tra Reggio, Mantova, Parma e Modena. Si è interessato di teatro con opere da lui stesso scritte e interpretate, riguardanti il teatro Dada (“Gigino Rafedi”), Giovanna Daffini (“L’amata genitrice”, rappresentata insieme ai Folkin’ Po) e i canti anarchici (“Il galeone, ribellarsi è giusto” con Mara Redeghieri, Lorenzo Valdesalici e Nicola Bonacini).  Da anni frequenta l’ambiente patafisico con performances e installazioni. Ciò l’ha portato a pubblicare “Ode” con “FUOCOfuochino”, la casa editrice più povera del mondo.  Da tempo collabora con riviste quali ApARTe° (materiali irregolari di cultura libertaria) e “A”, rivista anarchica.  Abita e lavora a Gualtieri (RE).