di Marco Noferi*


Fase 2. Ritorno alla normalità? Decenni di inquinamento, sfruttamento delle risorse e disprezzo dei limiti hanno causato l’impoverimento biologico e antropologico. E oggi siamo alla pandemia. Una riflessione, amara e felice a un tempo, di Marco Noferi, filosofo della terra, dell’olivo e della vite.

Foto L. Monasta

… siedo al margine dell’orto, a quella piccola ombra
che conosci, e ascolto crescere i fili dell’erba

Sono mesi che non piove, come ci si aspetterebbe di queste stagioni, e c’è sempre un vento strano che secca la terra; gli estirpatori dietro al trattore tentano d’aprirla e di lavorarla, ma sollevano polvere e scintille come in piena estate. 

Succede sempre più spesso, da qualche anno, come sa bene qualsiasi agricoltore.

A che punto è la notte?

Ma perché la gente non va nel panico per i cambiamenti climatici? Eppure sono – e saranno – causa di malattie, morti e miserie al pari dei tanti virus che stiamo imparando a conoscere. Ma non se ne parla negli intrattenimenti televisivi, né si fanno decreti per sottolinearne il carattere di emergenza e di catastrofe. Eppure ogni anno di più siamo sottoposti a siccità, gelate, piogge e venti anomali che provocano modificazioni violente nell’organizzazione dei lavori, nelle epoche delle fioriture e delle raccolte, nelle capacità autorigeneranti del terreno e che determinano un aumento dell’intensità dei parassiti e delle malattie (cimici, xylella, tignola, drosofila, mosca, aflatossina, rogna…). I mutamenti del clima sono causa d’effetti dirompenti sui mercati mondiali, sul reddito degli agricoltori, sulle patologie acquisite dai lavoratori, sulle condizioni di vita di intere regioni; sono causa di progressive criticità legate agli incendi e alla risorsa idrica, alla qualità alimentare, ai valori nutrizionali del cibo quotidiano.

Perché quindi non si riconosce come emergenza anche questa evidente catastrofe che non riguarda solo gli agricoltori, ma il presente dell’intero pianeta? Non sarà forse che sul cambiamento climatico si è già steso un velo di abitudine e stanchezza, una narrazione spettacolare, virtuale e perciò irresponsabile? Poco più di un fastidio stagionale, purtroppo ormai costitutivo di quella normalità alla quale adesso ci si auspica di ritornare.

Milioni di italiani stanno chiusi in casa da settimane; costretti all’inattività, scrivono i  giornali, consumando la loro fisicità tra un qualunque divano e un balcone – chi ce l’ha – dove affacciarsi per gridare nel vuoto: andrà tutto bene! 

A che punto è la notte?” dice il libro di Isaia. 

Viene il giorno, e viene anche la notte…” risponde la sentinella. 

In questo periodo, c’è l’allarme per la mancanza di manodopera nelle campagne, anche per le operazioni più semplici come le raccolte, le zappature, i confezionamenti. Il ministro si premura di aprire corridoi internazionali per far giungere dall’estero decine di migliaia di braccianti che mettano in salvo i raccolti: cioè, quello che serve alle grandi aziende, all’agroindustria, ai settori delle monocoltura.

Nessuna misura, nessuna scelta di coraggio, nessuna visione per l’agricoltura di piccola scala, per il presìdio delle aree interne, per il consumo di prossimità, per la ruralità contadina che pure assicura da sempre manutenzione del paesaggio, tipicità, rifornimento di cibo e identità. 

Frutta e ortaggi rischiano di marcire nei campi; eppure c’è una logica del profitto e del consenso che da un lato prescrive inattività e redditi illusori per i connazionali, e dall’altro l’utilizzo di mani e braccia, per gli stranieri. 

Anche queste scelte sono già parte del ritorno alla normalità?

Foto L. Monasta

Mutazioni e pandemie 

Davanti al pessimismo dei fatti (e della ragione) in molti avvertono che siamo ad una svolta, che davvero oggi è il momento di fare i conti con le nostre responsabilità, individuali e collettive. 

È davvero utile porsi qualche domanda in più, tentare di ricostruire una leggibilità della storia e sfuggire alla retorica consolatoria dei tricolori, degli eroi e del patriottismo pubblicitario.

Forse, c’è da augurarsi di non tornare alla normalità, a com’era “prima”. Perché a ben vedere il problema ha la sua origine e gran parte della sua spiegazione in quella normalità: la normalità dell’altro ieri che ha prodotto il disastro di oggi.

Da tempo e in tutto il mondo, ricercatori e scienziati indipendenti hanno lanciato allarmi sulle conseguenze dei modelli capitalistici contemporanei (privati o di stato) applicati alla produzione del cibo: sistemi industrializzati, urbanizzazione oltre ogni immaginazione, iperconnessione, erosione della biodiversità, macroallevamenti intensivi, inquinamenti da reflui, chimicizzazione, distruzione degli habitat di intere regioni…

Tutto questo, hanno spiegato gli scienziati, amplifica e genera la mutazione dei patogeni e la disseminazione non controllabile di malattie, vecchie e nuove; esiste cioè una connessione evidente tra quel modello (di agricoltura e di produzione del cibo) e l’eziologia epidemica: siamo al punto che il sistema economico mondiale mangia se stesso; questa contemporaneità pare sempre più rassomigliare allo stregone che non riesce a dominare le potenze degli inferi da lui stesso evocate.

Decenni di inquinamento, sfruttamento delle risorse e disprezzo dei limiti hanno causato l’impoverimento della storia biologica e della storia antropologica: così, si sono consumate nel giro di una o due generazioni quell’insieme di relazioni virtuose col cibo, la terra e i sistemi sociali e culturali che avevano reso comprensibili e sostenibili la vita e l’economia, nelle campagne come nelle città.

Così è andata: il neoliberismo globale, finanziario e immateriale, asservita la politica che ha rinunciato alla sua indipendenza, ha finito col dominare un processo di privatizzazione  mondiale delle risorse e delle competenze (e perfino dei sapori e delle capacità sensoriali, imponendo uno “stato di natura” fittizio, rimodellato e fabbricabile, dove l’insalata non sa più d’insalata e il pomodoro non sa più di pomodoro…). Di pari passo, è avvenuto un deterioramento delle garanzie e dei sistemi pubblici, della vitalità comunitaria, della conoscenza dei limiti e ha prevalso una virtualità che svilisce il cibo, il lavoro, la ruralità; ha prevalso la rappresentazione del vivente, un rimodellamento della sensibilità ovunque programmato nell’universo mercantile (la banalizzazione agrituristica, la campagna come fondale per gli eventi, il rito del tipico folcloristico -ma sempre nascondendo gli ultimi, braccianti dell’est o extracomunitari a 3 euro l’ora).

Abbiamo perso per strada l’autentico, che si tratti di pane o di companatico, o che si tratti di sentimenti, come la strana paura di questi giorni, incollata alle ultime notizie di un tablet qualunque, a saperi esperti e stati di eccezione. Siamo diventati tutti mangiatori. Mangiatori e mangiati.

Rompiamo questo assedio tristissimo. 

Facciamo in modo che questa non sia la normalità a cui tornare: perché proprio lì sta invece l’origine del problema. 

Leggere gli avvenimenti, ricostruire la storia, rammentare tutto può permettere di riprovare ancora a camminare sulla testa dei re- senza dietrologie o anacronismi prescientifici. Allora, questa crisi potrà essere virtuosa: un po’ di sapere, un po’ di saggezza e il più sapore possibile.

Foto L. Monasta

Misura, bisogni e democrazia

Siamo dentro l’inevitabile conseguenza di spregiudicatezze scientifiche, di traffici iperaccelerati, di modificazioni spesso definitive degli stessi processi naturali in cui e per cui viviamo; siamo il frutto del cinismo e del sarcasmo riservato agli allarmi per i mutamenti climatici e i disastri ambientali.

Alla fine, è a causa di questo desiderio d’onnipotenza che virus e batteri abbandonano spazi e ambienti selvaggi e trovano posto nelle città, nei mercati, negli aeroporti di tutto il mondo, in poche ore.

Fino a 25-30 anni fa, il Brasile aveva necessità d’importare carne dall’Argentina. Oggi, ne vende milioni di tonnellate all’Europa, all’Italia, alla Cina (anche attraverso l’aggressione alle aree interne dell’Amazzonia che la comunità scientifica indica come habitat di un gran numero di virus); contemporaneamente, la stessa Cina ha realizzato nel suo nord-est le Mega Farm, ossia allevamenti landless system (sistemi senza terra): in una sola fattoria gigante, in spazi chiusi come dentro una fabbrica, si trovano anche centomila vacche per carne e latte, destinate al mercato russo.

Per non dire dell’erosione genetica, della perdita progressiva delle sovranità alimentari, dei mercati mondiali astratti e inafferrabili che quotano e rendono ogni prodotto “merce”, e umiliano le agricolture locali.

Dall’inizio del ‘900 abbiamo perduto il 75 per cento della diversità genetica e oggi meno di 30 piante nutrono il 95 per cento dell’intera umanità. Chi comanda questo processo? Quale parlamento dei popoli l’ha discusso e autorizzato?

La democrazia…

Noi siamo cresciuti nella ricerca dell’incontro, della vicinanza, della mediazione, della relazione, del contatto.

Ora che il contatto è contagio, si determina un conflitto fra democrazia e sopravvivenza, fra libertà e sanità. 

Dentro questo conflitto, la scienza diviene la religione del nostro tempo, con dispute, anatemi e prescrizioni, come durante la Controriforma. Una bulimia di informazioni ad ogni ora e con ogni mezzo, format e feticci, che tendono a dissolvere l’origine di tutte le cose, privano gli individui di una relazione critica e autentica col reale e favoriscono l’impoverimento del nostro immaginario: è così che ci si ritrova in coda al supermercato, col cellulare di ultima generazione, ma in coda per il pane. Impreparati all’appuntamento con la storia.

Non coltiviamo più visioni o progetti collettivi, non ci sono più convinzioni condivise che scuotano la dimensione politica e sociale: nasce qui – per paura e per necessaria salvaguardia biologica – il rischio del controllo, dell’adesione acritica e di gregge, dell’accettare – ora – qualsiasi limitazione della libertà e – dopo – di non sapere più pensare in grande; il rischio di un’inerzia, di un automatismo che impedirà attribuzione di valore ai temi del rapporto con la terra, dell’alimentazione consapevole, del fascismo del cibo, dell’indipendenza culturale e fisica degli individui e dei popoli.

(A meno che l’ansia di riavere la normalità di prima non ci porti ad esclamare: ”Ovvia, ora si torna a soddomitare”, come si racconta dei fiorentini appena bruciato il Savonarola in piazza.)

Foto L. Monasta

Una rivoluzione che sappia riconquistare la sostanza della vita

Guardando bene, questa storia recente assomiglia ad una guerra civile, dove si vanno consumando le ultime possibilità per le istanze di democrazia della terra e del cibo: se è vero che quest’emergenza sarà il teatro e il laboratorio dove si preparano e si rappresentano i nuovi assetti politici e sociali che attendono l’umanità, sarà necessario che la resistenza si attrezzi con la migliore creatività e la più generosa sensibilità.

Guardando bene (anche se nel disinteresse generale) in questi giorni sono crollate le azioni del petrolio e sono cresciuti i favori delle borse per tutte le attività collegate all’alimentazione. La Russia, l’India, il Vietnam contingentano o bloccano l’export di derrate agricole di prima necessità, come il grano e il riso, finora destinate ai mercati occidentali. L’Italia, per contro, pare disponga di una autonomia alimentare interna non superiore a tre-quattro mesi.

Questo paese ha il fiato corto, intanto che la finanza mondiale individua dunque nella produzione del cibo l’elemento strategico per la “ripresa” (e per il futuro controllo e condizionamento dei sistemi socio politici mondiali).

Quale sarà il modello dominante del futuro prossimo? Il ritorno alla normalità sarà una Restaurazione o una Rivoluzione?

L’agricoltura e il cibo, su tutto il pianeta, sono ogni giorno la dimostrazione di una sconfitta di portata storica per l’umanità; e però ogni giorno – per chi vuole capire – si offrono come occasione per riprendere in mano i destini della terra e della democrazia.

Il neoliberismo aveva abituato intere generazioni a privilegiare l’interesse personale e il pensiero a breve termine: una movida d’eterno presente, dove si sa tutto su niente, che ha finito con il confinare il bene comune ed il progetto collettivo in un angolo di patetico romanticismo.

È invece è ancora possibile pensare in grande, guardare in avanti e superare il cinismo e il sarcasmo di quella parte del mondo che ha fatto dell’ignavia il suo riferimento e preferisce preoccuparsi poco e godersi la vita

E invece è umano e coscienzioso aver timore della normalità dell’altro ieri, delle accelerazioni virali, della disgregazione del capitalismo, dell’immanenza della virtualità, del fallimento della morale contemporanea. 

Ed è ancora possibile: dopo qualche settimana di lockdown, il fiume Po ha ritrovato la sua acqua azzurra, scrivono i giornali; nelle metropoli è calato l’inquinamento dell’aria; in tanti hanno riscoperto l’importanza – il senso – dell’approvvigionamento di prossimità dal contadino locale; fili d’erba sono tornati a crescere tra le pietre di Piazza del Campo; e gli abitanti di una città del Punjab sono tornati a vedere – dopo 30 anni di smog – la catena dell’Himalaya.

Se l’umanità vuole, può ritrovarsi migliore.
Se è vero che oggi ci si può sentire come nella sospensione di un film senza più sceneggiatura, è altrettanto vero che si può ancora scegliere di immettervi trame di razionalità e solidarietà, di equilibrio e coesistenza.

Va detto: c’è bisogno di pane, di pane buono e di terra in cima alla politica; c’è bisogno di una rivoluzione che sappia riconquistare la sostanza della vita, e il suo legittimo sapore; c’è bisogno di bravi contadini, giovani, moderni, che parlino tante lingue e che sappiano imparare dai vecchi perdonando i loro errori; c’è bisogno di tessere storie di beni comuni, di terre pubbliche; di tecnici che abbiano finalmente l’onestà e la professionalità di non vendersi al potere della scienza industriale; di consumatori che tornino cittadini capaci di riconoscere da sé gli odori ed i sapori; di compratori che sappiano considerare il valore del prodotto e non solo il suo prezzo; di donne e di uomini che abbiano voglia di lavorare con le mani, felicemente, senza attendere immigrati a 3 euro l’ora; c’è bisogno di una società che riesca a rispettare indipendenza e dignità del lavoro della terra. Alla fine, c’è bisogno di pomodori che sappiano di pomodoro.

In fondo non c’è bisogno di eroi, né di maestri, né di normalità. È sufficiente rammentarsi che lavorare intorno al cibo e alla terra, con le mani e con la testa, vuol dire e vorrà dire lavorare intorno al Potere, ai rapporti di potere. 

Tutto questo potrà apparire difficile, ma è ancora possibile, come rivedere i monti innevati dopo 30 anni di polvere e buio, e sarà anche entusiasmante tanto quanto è deprimente difendersi da un virus. Tutto questo è concreto ed urgente: perché la Terra è ancora un fondo di riserva disponibile, per il rinnovamento della capacità vitale dei popoli, da cui tutto può ripartire, una risorsa per l’immaginazione come per la vita pratica.

Questo è un futuro che ci può appartenere, se sapremo rivendicarlo con creatività, sensibilità e coscienza della storia.

Terra, agricoltura contadina, cibo autentico, dignità del lavoro: c’è quasi tutto quello che serve, di senso e di anticorpi, per i prossimi anni.

Il resto, la normalità di prima, non potrà essere altro che la sconfitta generata dalla paura e dall’addomesticamento.


MARCO NOFERI

Marco Noferi è un contadino e scrittore costantemente sintonizzato sui ritmi della t/Terra. Ha fondato, con altri, e lavora presso Paterna Società Agricola Cooperativa a Terranuova Bracciolini (AR). Nel 2018 ha pubblicato, per Aska Edizioni il libro “Amore mio non piangere. La melanconia del mangiare contemporaneo”.