Pellegrino Artusi raccontato da Alberto Capatti

LA RECENSIONE di Simonetta Lorigliola

Non c’è stanza più ricca di complessità, trame, immaginazione di quanto possa essere una cucina domestica. Vi scorrono i giorni scanditi da rituali che si ripetono e si rinnovano, generando sapori e alimentando relazioni.
Questo vale per tutti coloro che a casa cucinano, compreso il popolo numeroso dei single.
Pellegrino Artsusi era parte di quel popolo, benché al tempo suo il single fosse ancora solo uno scapolo. La cucina l’ha osservata da lontano, per tutta la giovinezza e la prima maturità, varcando la sua soglia in maniera autentica solo con l’inizio della vecchiaia. Accade quando riesce finalmente a portarsi in casa una buona e fidata servitù. E i fornelli si accendono di calore e creatività.

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Al centro, la relazione, quella con Marietta Sabatini, sua amata e rispettata governante, e con Francesco Ruffilli, cuoco di professione. È lui il privato esecutore delle ricette artusiane nella cucina della casa in via d’Azeglio a Firenze, laboratorio a tutto campo, con una vera e propria cucina “in redazione” ben prima che nascesse l’iconico giornale che dal 1929 ne vantava una, e che si chiamò La cucina italiana.
Nella cucina artusiana passano e ripassano le esecuzioni di ogni italianissima recipe che l’Artusi voglia vagliare per il ricettario. L’operazione culinaria viene ripetuta fino alla sua completa riuscita. Se non c’è soddisfazione, in quanto a consistenza, sapore, piacere, la ricetta non passa.

Di questo e di molto altro, con piglio colto e un po’ malandrino, come è nel suo stile, Alberto Capatti ci racconta in Il fantasma della cucina italiana.
È una biografia poco scolastica, con sapiente equilibrio tra dato storico, testimonianze, ricostruzione e un pizzico di sacrosanta immaginazione.
Il ritratto che ne esce ci presenta un Artusi personaggio schivo e buon costruttore, già in vita, del mito di se stesso, fino a incaponirsi a voler pubblicare a sue spese un libro che nessun editore (poi pentendosene) aveva accettato. E che diventerà, negli anni successivi, un vero e proprio best seller: nel 1914 si arriva a 80.000 copie, un numero impressionante per il tempo.

Un ricettario in divenire

La grandezza dell’Artusi per la storia della cucina italiana è indubbia, per varie ragioni, riassume Capatti.
Pellegrino Artusi è il creatore del primo vero ricettario dedicato a chi in casa cucina ogni giorno, e non agli addetti ai lavori.
É un libro in cui, oltre alla prescrizione gastronomica, entra il racconto, o forse persino la letteratura (lo aveva ben detto Camporesi) poiché le narrazioni con cui l’autore accompagna quasi ogni piatto sono una forma di espressione letteraria, e non manualistica come un ricettario potrebbe banalmente prevedere.

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Letteratura e lingua, quella italiana e di Firenze, seconda capitale del neonato Regno d’italia di cui il gastronomo romagnolo è convinto sostenitore, anche in chiave anticlericale. Che la sua opera abbia contribuito a “fare gli italiani” è un’altra delle tesi di Piero Camporesi. Ma, dice Capatti, la vera rivoluzione artusiana sta nell’aver scritto un libro che a ogni nuova edizione muta, si arricchisce, evolve. Un ricettario in divenire, che non è più – come nella prima edizione – la raccolta personale e quasi positivista di una singolo e scapolo, ma diventa collettore di nuove ricette inviate dagli stessi lettori, sparsi in giro per la penisola, che si tramutano in co-autori della pubblicazione. Un fatto del tutto inedito e assolutamente moderno, dato che ci troviamo a cavallo tra Ottocento e Novecento.

Artusi muore nel 1911, ma l’Artusi gli sopravvive, e ancora oggi è editato, diffuso, praticato, impastato, lievitato, sminuzzato, e in questo modo celebrato: uno spettro, buono e goloso, si aggira ancora per le cucine d’Italia.
Cantino pentole e coperchi.