Andreas Kofler

Siamo nella terza decade di ottobre e mi trovo in uno dei vigneti di Kellerei Kurtatsch in località Hofstatt, appena sopra il paese. Il presidente Andreas Kofler e l’enologo Othmar Doná ospitano giornalisti, esperti ed addetti del settore per presentare i vini della linea Freienfeld, tra i più prestigiosi della gamma aziendale. Il luogo, di frastornante bellezza, consente di abbracciare in un solo colpo d’occhio quasi tutte le vigne dei soci conferitori: dalle argille dei terreni più bassi, a nord della chiesa di Kurtatsch, nelle zone di Brenntal e Frauenrigl con merlot, gewürztraminer e lagrein, ai suoli più sciolti verso sud, ottimi per i cabernet, ai conoidi di calcari dolomitici proprio qui a Hofstatt, trascinati dai torrenti alpini per creare il supporto ideale al pinot bianco, passando poi al sauvignon e al pinot grigio degli scoscesi pendii di Penon, salendo, quindi,  di quota fino a Graun, dove allignano i vigneti più alti consacrati al müller thurgau, e gettando, infine, lo sguardo oltre la valle per scorgere sul versante opposto Glen ed il suo pinot nero. È Erwin Carli, agronomo e secondo di cantina, a spiegare con precisione geologie, quote, esposizioni.


Othmar Doná e Erwin Carli

Frattanto alcune voci nel gruppo si soffermano sulle vicende e i fermenti legati alle istituende Menzioni Geografiche Aggiuntive, al necessario e meticoloso lavoro di zonazione, all’attenzione per la storicità delle vigne d’elezione, ai loro nomi attestati dagli antichi catasti che hanno fissato e quasi consacrato le vocazioni svelate nei secoli dall’esperienza dei vignaioli. Altri vociferano, a tal proposito, del fitto lavorio diplomatico in atto tra le diverse cantine: le più piccole, spesso custodi di piccoli vigneti a cui sono da sempre fortemente legate e che vorrebbero veder nobilitati; le più grandi, in qualche caso capaci di creare, dilatando il fascinoso nome di un singolo podere, un esteso brand al quale, ormai, non si può più disconoscere, se non un’aura di tradizione, almeno una forza commerciale e d’immagine che sarebbe sconsiderato dissipare. Qualcuno, ancora, stigmatizza a ragione l’insano proposito di incasellare tra le maglie di un Disciplinare, in una sorta di “Gran Selezione” in salsa tirolese, quei vini esclusivi, vette del prestigio aziendale, che da qualche anno quasi ogni cantina sta regalando – in realtà di solito a un prezzo piuttosto proibitivo – agli appassionati più esigenti.

Grandi sono l’interesse e la curiosità per questi argomenti, eppure mi scopro presto distratto dall’Erlebnis del momento. Sarà il clima insolito per la stagione (ben 28 gradi alle cinque del pomeriggio, quando nelle notti precedenti si era scesi fino a -2); sarà il fhön che soffia caldo e forte a sferzare il viso e ingarbugliare i capelli; sarà il più consueto spettacolo di una valle che alterna boschi, prati, vigneti, meleti, orti e nel mezzo gli ordinati villaggi con le loro frazioni, chiese e campanili, vaghi punti lontani oppure macchie più estese e comprensive, promessa di ristoro ed accoglienza.

Le contingenze sembrano perdere la loro urgenza, come si trattenessero sull’uscio, mostrandosi ma senza imporsi, solo dettagli di un quadro cui recano ricchezza e sfumature perdendosi in una policromia ora diafana, tenue e quasi incorporea, ora più vivace, vigorosa e materica.

Un’atmosfera chimerica che ancora conserva la sua malìa un poco più tardi, nella grande sala della Tenuta Freienfeld, originaria dimora della Cantina ed ora sede di rappresentanza, dove ci trasferiamo per degustare due distinte verticali, come due sono le Riserve della linea Freienfeld.

Si parte con lo Chardonnay, proposto in quattro diversi millesimi. Per prime vengono servite le annate 1994, 1996 e 2000 di Eberlehof, primitivo esperimento di Chardonnay ambizioso sviluppato negli anni Novanta da Kellerei Kurtatsch e poi abbandonato per precoce obsolescenza dei vigneti (si trattava ancora di pergole coltivate con sistemi e rese poco efficaci); sono vini indubbiamente figli di un paradigma stilistico ormai superato, che cercava l’eccellenza nella pienezza e rotondità delle sensazioni esaltate da un uso spesso soverchiante del legno nuovo; eppure questi vini non più giovanissimi, con l’eccezione di un 2000 troppo caldo ed ormai decaduto, ancora si mostrano vivi e ritti, in particolar modo il 1996 che sfodera una vena e un mordente inaspettati. Nel quarto calice viene, invece, presentato lo Chardonnay Riserva Freienfeld 2016, nato da un nuovo progetto di moderna impostazione viticola ed enologica, che subito svela il suo frutto maturo, a tratti esotico, ma integro e fragrante, avvolto dalle spezie, dai lievissimi ritorni tostati, di bella espressività varietale, intenso e insieme morbido, garbato, armonico e armonioso.

Preso dalle mie suggestioni, a metà tra malinconia e turbamento, distrattamente odo qualcuno parlare di un nuovo “standard” dello Chardonnay che si starebbe imponendo in Südtirol, vini che richiamano il territorio, ma senza troppe distinzioni tra zona e zona, privi di individualità. V’è chi li vorrebbe più “alpini” e chi incita ad un maggior coraggio, ad “osare di più”. Alcuni arrivano persino a rivalutare gli Chardonnay “vecchia maniera” dei primi tre calici, lodandone la maggior originalità, nonostante siano espressione del tanto vituperato stile omologante tutto legno e morbidezza sul quale, da critici aggiornati, dovrebbe aver ormai scagliato definitivo anatema.

“Osare” – mi chiedo – per ottenere quale strabiliante effetto? Per raggiungere quale idea di eccellenza? Non è già semplicemente eccellente un’elegante e raffinata piacevolezza, sia che si esprima nella vibrante freschezza di un’acidità diritta e profonda, sia che ci parli con voce più calda, dolce e pastosa? Forse che si vorrebbe piantarlo altissimo, questo benedetto chardonnay, universale emblema di superba eleganza fra i bianchi, così da farne un vino estremo per non so quale gusto del paradosso?

Devo confessare, con un pizzico di imbarazzo, di sentirmi un poco confuso. Qualcosa non mi è chiaro: “osare” con Chardonnay “alpini” da marchiare con qualche artificio che mi sfugge, quando a me sembra che i buoni Chardonnay oggi prodotti in Alto Adige – e questo Freienfeld non è da meno – siano davvero ben fatti, puliti, fini ed eleganti, bilanciati nei loro elementi, espressione di una precisa qualità. Mi par di intuire, invece, che li si vorrebbe più “incisivi”, più “profondi”, forse più “verticali”, tutti termini che mi suonano viepiù come nuove parole d’ordine, in realtà già un po’ à la page. Eppure la sapida dolcezza, l’acidità non eccessivamente tagliente, la spalla appena ampia e larga del Freienfeld 2016 mi riportano dritto ai vigneti osservati nel pomeriggio, tra i più caldi e meridionali della regione.

Discorsi coinvolgenti e sconvolgenti, reazioni appassionate, ma tutto passa rapido in secondo piano, perché non c’è verso di trattenere lo sguardo dal perdersi oltre le bifore dell’antico palazzo, dove a ovest scorgo l’approssimarsi del tramonto, che piano, dietro i monti, colora le nubi alte di un viola pastello le cui calde sfumature risaltano sull’azzurro sempre più carico e scuro del cielo; uno sfondo nel quale le linee dei tetti si smarriscono e si sciolgono in una morbida atmosfera, stemperando e togliendo ardimento ad ogni polemica certezza.

Dinnanzi a me scorrono nuovi calici; ai vini dorati di schiatta borgognona si susseguono ora quelli vermigli di stirpe bordolese. Dopo i quattro Chardonnay si passa ai Cabernet Sauvignon, cinque diverse annate in un crescendo che culmina nell’Alto Adige Cabernet Sauvignon Riserva Freienfeld 2015. Dai cupi manti color rubino si sprigionano, in verità, profumi e gusti che mi riportano alla mente cari e vecchi ricordi altoatesini, le saporite speziature, il fragrante calore dei frutti rossi, maturi di succosa dolcezza, i freschi balsami delle resine; muovendo dalla semplice schiettezza del 1992, attraverso la complessità del 1997, la ricchezza del 2007, la precisa compostezza del 2011 e la giovane ma già superlativa consistenza del 2015, ogni vino sembra riproporre tratti e caratteri che vivono e si animano dei riflessi della terra di Kurtatsch.

Scrisse Luigi Veronelli: “Il vino, dopo l’uomo, è il personaggio più capace di raccontare storie, di lanciare messaggi vasti e antichi, di presentarsi con i suoi documenti d’identità completi. Io, quando assaggio un vino, sento tutto quello che è successo in quella terra dove è nato, tra quella gente che l’ha coltivato, in quelle mani che l’hanno toccato”.

Certo non posso vantare la sensibilità di un Veronelli, ma la sera, a cena, i racconti del vino e la loro suggestione si mostrano ancora più vivi, reali, pregnanti; accompagnano con complici ammiccamenti le invenzioni di Jakob Haller, giovane cuoco il cui talento trasforma i prodotti coltivati nel suo maso di St. Pauls in piatti insoliti e stimolanti, lasciando che spezie, erbe aromatiche e semi arricchiscano e donino alle pietanze sorprendenti contrasti tattili e gustativi, autentico stupore per il palato poi ricomposto in un dinamico e pungolante equilibrio.

Ed ecco che, dal vino, il discorso scivola sui momenti della vita e con i miei compagni di tavola ci ritroviamo a scambiarci fatti, occasioni, ricorrenze, avvenimenti, aneddoti, evocandone i colori, riassaporandone gli aromi. Ancora una volta questo misterioso liquido divino ci trascina, quasi con studiata noncuranza, a godere di una serena e condivisa semplicità.

Marco Magnoli